il Fatto Quotidiano, 25 ottobre 2018
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Biografia di Pierre Moscovici
Nei suoi primi 61 anni di vita, Pierre Moscovici sembra essersi impegnato molto a rispettare tutti i cliché: da figlio dell’élite intellettuale – genitori: lo psicologo sociale Serge Moscovici e la psicanalista femminista Marie Bromberg – ha studiato prima a Sciences Po e poi all’Ena, la scuola d’amministrazione che forma la classe dirigente; da europeista non ha mai esitato a usare (e poi lasciare) le cariche europee come strumento per ambizioni di politica interna francese; da socialista ha sempre cercato più il consenso della rive gauche intellettuale parigina che delle masse popolari e, come da tradizione socialista, si è concesso una vita privata vivace all’altezza di quella del suo ex capo François Hollande (prima la fidanzata Marie-Charline Pacquot, giovane filosofa, 30 anni di meno, relazione scoperta da un settimanale di gossip, poi la funzionaria del ministero dove lavorava, Anne-Michelle Basteri, 22 anni di meno, ora sua moglie).
L’ultimo dei cliché cui Moscovici ha scelto di aderire è quello dell’eurocrate che sfida i populisti in nome dell’austerità, campione di quell’Europa delle regole che oggi gode di così cattiva fama. E allora, nei suoi ultimi mesi da commissario agli Affari economici e monetari, non si limita a contestare all’Italia le conclamate violazioni degli impegni su debito e deficit, ma aggiunge un di più di insulti, soprattutto a Matteo Salvini e agli altri “piccoli Mussolini” del continente.
Di tutte le cose che gli contestano in questi giorni, una almeno è ingiusta: il rigore ha provato ad applicarlo anche in patria. È diventato ministro delle Finanze di Hollande nel 2012 e ha portato il rapporto tra deficit e Pil dal 5,2 per cento del 2011 al 5 nel 2012, al 4,1 nel 2013 (il deficit della Francia, a differenza di quanto raccontano tanti anche in Italia, si sta riducendo da anni, nel 2017 è arrivato al 2,7 per cento). Ma questo non è bastato a fermare l’aumento del debito, passato dall’87,8 per cento del 2011 al 98,5 del 2015, comunque più basso del 130,8 dell’Italia ma ingombrante.
Per capire Moscovici bisogna partire dalla fine, dal 4 ottobre, quando ha annunciato di non voler correre come presidente della Commissione Ue per il Partito socialista europeo nel 2019. Il discorso è pubblicato sul suo blog sotto il sobrio titolo “Salvare l’Europa”. Come sempre, nelle mosse europee di Moscovici – che si picca di essere nato nel 1957, lo stesso anno della Comunità europea – la spiegazione è tutta francese: il suo Partito socialista è stato troppo ambiguo, “non possiamo guardare allo stesso tempo a Jean-Luc Mélenchon (il sovranista di sinistra in Francia, ndr) e ai miei amici Pedro Sánchez, Antonio Costa o Alexis Tsipras”; vuole opporsi alle nuove destre protezioniste, ma ha contestato i trattati commerciali con Usa (Ttip) e Canada (Ceta) che Moscovici invece difende: “Io non credo alla sinistra che vuole rompere con l’Europa o nell’illusione di costruire un’altra Europa, questa è vecchia retorica (…) la maggior parte degli elettori che hanno abbandonato i socialisti nel 2017 non lo ha fatto perché erano troppo europeisti, ma perché lo erano troppo poco”.
Nessuno glielo aveva chiesto formalmente, ma Moscovici annuncia di non voler fare lo Spitzenkandidat socialista (cioè il candidato alla Commissione) anche perché i Socialisti europei si sono rinchiusi in uno “splendido isolamento” dopo la rottura della grande coalizione con il centrodestra del Ppe. In nome della lotta contro i sovranisti e i populisti, sostiene Moscovici, con il Ppe bisogna trattare. Soprattutto se si vuole partecipare alla spartizione delle poltrone nel 2019 quando ci sarà una grandissima coalizione con tutti dentro tranne gli euroscettici. Moscovici, pare ormai chiaro, in quella spartizione vuole avere un ruolo.
Anche perché in Francia il suo mondo sembra davvero finito, travolto dalla doppia avanzata di Emmanuel Macron e del suo populismo d’establishment e, dall’altro lato, da Marine Le Pen e Mélenchon. Per l’establishment socialista non resta molto, e di quell’establishment Moscovici è parte da sempre: nel 1984 finisce l’Ena e diventa membro del gruppo di esperti del Partito socialista, quando Lionel Jospin fa il ministro dell’Istruzione lo chiama al suo fianco come consigliere, nel 1994 viene eletto al Parlamento europeo, ma torna nel 1997 per diventare deputato all’Assemblea nazionale del dipartimento di Doubs e fare il ministro degli Affari europei del governo (socialista) Jospin. Poi continua a fare il deputato, con andata e ritorno tra Parlamento francese e Parlamento europeo.
Il suo riferimento tra i socialisti francesi era Dominique Strauss-Kahn, che difenderà anche dopo le accuse di stupro che gli costeranno le dimissioni dal Fondo monetario internazionale. In mancanza di DSK, Moscovici punta su Hollande, gli gestisce la campagna elettorale e in cambio riceve il ministero dell’Economia e delle finanze. Nei due anni a Bercy ottiene una nuova fidanzata e molte critiche. Anche dalla Commissione europea, con la quale in quei due anni Moscovici è incaricato di condurre un bluff dall’esito già scritto: promette di riportare il deficit sotto il 3 per cento del Pil ma poi rinvia sempre il momento (arriverà soltanto nel 2017). E ripete: “Non siamo l’anello debole d’Europa”.
Di sicuro Hollande si rivela l’anello debole dei partiti socialisti europei. Dopo le Europee 2014, che in Francia sono ricordate soprattutto per il trionfo del Front National e l’inizio della fine politica di Hollande (prima della stagione degli attentati che inizia a gennaio 2015), il presidente propone ad Angela Merkel una mossa spericolata. Anche se il Partito popolare è arrivato primo, e quindi tocca al suo candidato Jean Claude Juncker la guida della Commissione, i governi degli allora 28 Stati dovrebbero indicare proprio Moscovici come affermazione dei valori europeisti e sfida ai sovranisti. La Merkel non cede, la Commissione va a Juncker e Moscovici si prende il portafoglio degli Affari economici.
Negli anni dei governi Renzi-Gentiloni, sempre in nome del costruire un argine contro i populisti, Moscovici avalla la richiesta italiana di avere più flessibilità: 30 miliardi di euro, finiti poi in bonus (80 euro) e poco altro.
Ora, nella fase finale del suo mandato, imita il predecessore Olli Rehn, falco del rigore contabile, che tra fine 2013 e inizio 2014 fece la sua campagna elettorale per il Parlamento europeo anche sullo scontro con l’Italia, le cui deviazioni dagli obiettivi di deficit sono molto malviste nella sua Finlandia. Rehn poi è diventato vicepresidente del Parlamento Ue e ministro in patria. Moscovici chissà.