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 2018  ottobre 25 Giovedì calendario

Anthony Burgess in versione critico

Perfino post mortem, 25 anni dopo, Anthony Burgess continua a rompere le palle. Nella fotografia è in giacca scozzese, camicia blu, cravatta. Impeccabile. Sbuffa il fumo in faccia al fotografo, il viso sigillato da una smorfia. Burgess, che ci manca dal tardo novembre del 1993, autore tra i più istrionici e inafferrabili del secondo Novecento inglese, ridotto, in questo Paese editorialmente dei ghiri e delle marmotte, ad Arancia meccanica (ma voi gettatevi in biblioteca, vi prego, e leggete Gli strumenti delle tenebre, Il seme inquieto, Abba abba, Un cadavere a Deptford, almeno), sta ancora sulle palle a troppi.
Così, per dire, recensendo gli scritti giornalistici, usciti come The Ink Trade (Carcanet, pagg. 274, sterline 17,99), il Times è viziosamente cattivo, spara il titolo affibbiando a Burgess l’etichetta di «scribacchino e ciarlatano», chiarificando il concetto poco dopo, «Anthony Burgess è ricordato per Arancia meccanica e poco altro». Cattiverie d’Albione. D’altro canto, pochi giorni fa, New Statesman parla dello stesso libro come di «un manuale di scrittura e di lettura, un compendio di frasi sagaci e di epigrammi arguti, un lamento dolcemente ironico dello scrittore ai tempi dei mass media e dell’editoria di massa». Insomma, uno spasso. Mettiamola così. Burgess non si pensava giornalista («il titolo di giornalista è certamente nobile, ma io non lo reclamo: io sono, presumo, un romanziere e un compositore musicale mancato, non ho altre pretese», dichiarava), ma ha praticato l’arte praticamente per tutta la vita e per testate nobilissime (dal Guardian al New York Times, dall’Observer al Times Literary Supplement; Will Carr, il curatore, segnala che la prima apparizione di Burgess sulla stampa risale al 21 novembre del 1929, a dodici anni, con un disegno pubblicato dal Manchester Guardian; dal 1960, con la pubblicazione della «Trilogia malese», comincia la vicenda giornalistica vera e propria).
Di Burgess, immagino, sta sulle scatole la supponenza – «A quindici anni ero in grado di citare Dante e Baudelaire. In originale» – lo humour nero, l’abbacinante individualismo. Per intenderci. Soltanto uno come Burgess, con virile noncuranza, può scrivere, a proposito della Breve storia del tempo di Stephen Hawking, che «la sua incomprensibilità – insieme alle condizioni fisiche dell’autore – sono i fattori determinanti che ne spiegano il successo». Piuttosto, leggere Burgess è un piacere sovrano, un drink d’intelligenza purissima. Lo scrittore che ha maliziosamente stroncato Arancia meccanica di Stanley Kubrick – «non è azzardato affermare che si tratta dell’Arancia meccanica di Stanley Kubrick» – ma che riteneva Metropolis di Fritz Lang «l’unico film che mi abbia davvero cambiato la vita», sfotteva John Le Carré («ha un talento unico: dovrebbe impegnarsi a scrivere un romanzo»), stroncava Jack Kerouac («vagabondare non è necessariamente una forma d’arte... il suo stile è sostanzialmente deprecabile»), schiaffeggiava Ernest Hemingway («Hemingway si è ridotto al suo mito. E il mito lo ha ucciso») e di fronte al Nome della rosa di Umberto Eco non aveva dubbi, «è un libro necessario per capire come funziona un monastero nel XIV secolo».
In fondo, Burgess onora i paladini letterari: James Joyce («Quando ho letto il Ritratto dell’artista da giovane ho avuto un terrore tale, era così prossimo a me, che avrei voluto bruciarlo», con Finnegans Wake «Joyce ha portato ai limiti estremi la tecnica della scrittura»), Thomas S. Eliot (notevole il saggio dedicato a The Waste Land, «quel poema misterico che fin da giovane conoscevo molto meglio dei miei insegnanti»), Shakespeare. Tra i contemporanei, Burgess riconosce il genio di Malcolm Lowry, lo scrittore di Sotto il vulcano, meteorite narrativo ancora incompreso («è uno dei romanzieri sommi, più grandi»), s’inchina davanti a Vladimir Nabokov («Ci ha fatto l’onore di scegliere la nostra lingua. Per trasformarla»), elogia William S. Burroughs (sul Guardian, il 20 novembre del 1964 scrive che Il pasto nudo «è un libro molto importante per la letteratura attuale», paragonando l’autore a Jonathan Swift).
Ovviamente, Burgess è parziale, malizioso, ambiguo nei suoi giudizi giornalistici. Per fortuna. Per questo continuiamo a leggerlo. Burgess ha capito quello che troppi giornalisti fanno finta di dimenticare: che il giornalismo, essenzialmente, è teatro.