La Stampa, 25 ottobre 2018
I pericoli dei computer quantistici
Bisogna mettersi in testa che le innovazioni tecnologiche viaggiano a velocità supersoniche e che molto spesso ci lasciano indietro, parecchio indietro, a combattere battaglie di retroguardia. Stiamo affrontando soltanto adesso, per esempio, la questione delle fake news e dei nuovi diritti digitali, a cominciare dalla privacy fino al diritto d’autore, senza peraltro avere ancora trovato una soluzione, ma siamo del tutto impreparati alle nuove sfide che, secondo l’Economist, ci aspettano una volta che compariranno sul mercato i famigerati computer quantistici cui stanno lavorando tutti i giganti della tecnologia. I computer quantistici, o quantici, hanno una potenza di calcolo esponenzialmente superiore rispetto a quelli attuali, anche i più sofisticati. Nonostante esistano già a livello di prototipi, gli analisti immaginano che saranno disponibili nella piena funzionalità di calcolo tra il 2030 e il 2040, quindi in teoria c’è tempo per isolare l’antidoto, ma l’impatto sulla società come la conosciamo si prevede così devastante che c’è già chi, come il National Institute of Standards and Technology americano, prova a studiare il modo di contenerli. Sappiamo già, infatti, che la velocità di calcolo dei computer di prossima generazione sarà in grado di decodificare il criptaggio, la protezione, su cui si basano le comunicazioni e l’economia digitale, con la prospettiva di far saltare Internet, tutto Internet, perché senza il criptaggio che protegge i flussi finanziari e i segreti di Stato, le email e le transazioni bancarie, le carte di credito e le cartelle mediche non ci sarebbe più alcuna attività commerciale sulla rete (valore 2 mila miliardi di dollari l’anno).
Il National Institute of Standards and Technology lavora all’antidoto, sotto forma di un nuovo tipo di algoritmo crittografico capace di togliere il vantaggio ai computer quantici, ma la relazione finale sulle misure da prendere non è prevista prima del 2024.
A noi poveri mortali non resta che attendere e, intanto, combattere battaglie meno futuristiche e più a portata di mano, come quella contro le fake news. A questo proposito, c’è da segnalare la prima proposta capace di andare oltre la denuncia e l’indignazione. L’autore è Jim VandeHei, uno dei giornalisti che hanno capito per tempo l’evoluzione digitale del sistema dell’informazione, tanto da aver lasciato nel 2006 un lavoro da superstar al Washington Post per fondare prima il sito Politico e, più di recente, Axios, ovvero le due piattaforme giornalistiche digitali di più grande impatto sul sistema politico Usa. VandeHei ha fornito quattro idee per restaurare la fiducia nei media, una ciascuno per i politici, per le redazioni, per i social network e per gli utenti. Ai politici, VandeHei dice di smetterla di usare l’espressione «fake news» perché la cosa peggiore che possa capitare a un Paese è quella di avere un popolo che crede nelle bugie e non si fida di nessuno; ai media suggerisce di vietare ai giornalisti di usare i social, in particolare Twitter, tranne che per la condivisione degli articoli; alle piattaforme digitali consiglia di autoregolamentarsi o di consentire allo Stato di intervenire per mettere ordine come già succede con i media tradizionali o con le grandi infrastrutture tecnologiche; agli utenti, infine, ricorda che siamo tutti colpevoli per cui è arrivato il momento di smettere di condividere articoli che non abbiamo letto, di twittare le nostre irritazioni, di cliccare sulla spazzatura. Sono raccomandazioni minime, di buon senso, quasi banali, ma metterle in pratica è più complicato che progettare un processore quantistico.