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 2018  ottobre 25 Giovedì calendario

Quei fondi da 70 miliardi sfiorati dalle sanzioni Usa

I fondi sovrani russi gestiscono oltre 70 miliardi di dollari, e quindi hanno la capacità di soccorrere le finanze pubbliche italiane, come aveva prospettato nei mesi scorsi il ministro Savona. Rischiano però di rappresentare un’arma a doppio taglio, e compromettere il rapporto del nostro Paese con gli Stati Uniti, perché almeno uno di essi è stato sottoposto a sanzioni da parte del dipartimento al Tesoro americano, nell’ambito delle operazioni condotte dal Cremlino in Ucraina.
In origine il governo di Mosca aveva creato due fondi, il Reserve Fund e il National Wealth Fund, nati dalla scissione dello Stabilization Fund of the Russian Federation. Le loro attività erano strettamente coordinate e gestite dal governo. Lo scopo era gestire i ricavi del settore energetico, per creare una riserva da utilizzare quando i prezzi del petrolio e del gas scendevano, investire nel Paese e garantire il sistema pensionistico. Entrambe le strutture facevano capo al ministero delle Finanze e il loro meccanismo era regolato con precisione. 
I ricavi del settore energetico confluivano nel Reserve Fund per avere capitali pronti all’uso in caso di problemi contabili legati all’oscillazione dei prezzi, e quindi un cuscinetto per attutirne gli effetti. Quando le dimensioni del fondo raggiungevano il 10% del prodotto interno lordo stimato, i soldi in eccesso venivano trasferiti al National Wealth Fund, che invece aveva principalmente il compito di garantire la liquidità del sistema pensionistico nazionale. Nel gennaio scorso il Reserve Fund ha esaurito i propri capitali e la sua funzione, ed è stato fuso con il National Wealth Fund, che ora ha a disposizione una riserva equivalente a circa 70 miliardi di dollari. Questo strumento potrebbe essere utilizzato per investire nel debito italiano, anche se ci sono alcuni vincoli che lo limitano. 
I due ostacoli
Secondo le regole stabilite in passato dal ministero delle Finanze di Mosca, infatti, i bond selezionati dovrebbero avere come minimo il rating AA- da parte delle agenzie Fitch e Standard & Poor’s, e Aa3 da parte di Moody’s. I titoli emessi da Roma non sarebbero in grado di superare questo esame, ma delle eccezioni erano già state consentite nel caso degli investimenti fatti in Ucraina nel 2013, e quindi la politica potrebbe permetterle anche in questa occasione.Il secondo problema riguarda la natura di questi fondi e il loro rapporto con gli Stati Uniti. Proprio ieri l’Anas ha firmato un accordo con il Russian Direct Investment Fund, per fare investimenti comuni nello sviluppo delle strade russe. Rdif è un fondo creato nel 2011 con una disponibilità di circa 10 miliardi di dollari – sempre legato al governo – che ha proprio la missione di attirare capitali per potenziare le infrastrutture di Mosca. Tra le sue operazioni più interessanti, c’è anche la collaborazione avviata con l’imprenditore americano Elon Musk, per lo sviluppo del suo progetto di trasporto veloce Hyperloop. 
Colpiti dagli Usa
Il problema però è che nel luglio del 2015 l’Office of Foreign Assistance Control del dipartimento al Tesoro americano ha sottoposto il Russian Direct Investment Fund a sanzioni, a causa dei suoi rapporti con la Vnesheconombank. Nei mesi scorsi poi Rdif è finito anche sotto la lente del procuratore del «Russiagate» Robert Mueller, perché nel 2017 il suo ceo Kirill Dmitriev aveva incontrato alle Seychelles Erik Prince, fratello della segretaria all’Istruzione DeVos. Il sospetto è che i due abbiano avuto un ruolo nelle attività condotte dalla Russia per influenzare le presidenziali del 2016. Quindi nel novembre del 2017 il Russian Direct Investment Fund ha sentito la necessità di smentire ogni rapporto diretto con la Vnesheconombank, aggiungendo di non considerarsi sottoposto a regime sanzionatorio.Molti di questi aspetti sono ancora sotto inchiesta negli Stati Uniti, e probabilmente verranno trattati nelle conclusioni dell’indagine condotta da Mueller. 
Il pericolo per chi collabora con tali istituzioni è però quello di essere coinvolto in operazioni discutibili, e quindi correre il rischio di compromettere il rapporto con gli Stati Uniti.