la Repubblica, 25 ottobre 2018
La pausa pranzo in sei scatole
Il pastore che si porta al pascolo pane e cacio, l’operaio col baracchino, l’impiegato in sala mensa, l’architetto che usa l’applicazione di un delivery per farsi recapitare il bento accanto all’iMac. Tutti, in realtà, stanno rispondendo a un’esigenza comune: mangiare durante il lavoro. Da quando l’uomo è operoso – quindi dalla cacciata dall’Eden – si pone il problema della pausa- pranzo. Ma l’Italia è cambiata, e i pasti con lei. In quella rurale del dopoguerra i mandriani pugliesi che salgono in Abruzzo con le bestie si portano dietro grandi forme di pane e caciocavallo; nel boom il Paese si riempie di fabbriche e dunque di milioni di tornitori, saldatori, addetti alla catena: arrivano ai cancelli di Mirafiori con il” barachin”, il” baracchino”, una gavetta stipata di pasta e fagioli, di maccheroni. A Milano si chiama” schiscetta” proprio perché” schiscià” significa schiacciare: il lavoro manuale mette tanta fame che è difficile rinchiuderla nell’alluminio. Ma mangiare ai tavolacci, dai pentolini, non è più tollerabile: e allora negli anni Sessanta e Settanta ecco la conquista della mensa. Le industrie si dotano di cucine sterminate che diventeranno proverbiali luoghi di vita aziendale, fino alla fantozziana” crocifissione in sala mensa” ( è il 1975). Negli anni Ottanta e Novanta le grandi fabbriche ridimensionano, cambia il modello: la ditta da madre-padrona si fa zia laica e spedisce i lavoratori a mangiare nel vasto mondo dei bar e delle trattorie grazie a uno strumento brand new, il “buono pasto”. Il” servizio sostitutivo di mensa” viene inventato in Inghilterra nel 1954 e arriva in Italia negli anni Settanta fino a valere oggi 3 miliardi di euro ( la sola genovese Qui Group appena fallita ha debiti per 325 milioni). Ma oggi? Come mangiano i lavoratori nell’anno del signore 2018? Sono tempi liquidi, quindi la risposta è: in tutti i modi. Il panino, la schiscetta, la mensa, il pranzo al bar o in trattoria. A questi si aggiunge una novità: i servizi di consegne omnibus come Just Eat, quelli dei grandi gruppi – McDonald’s ha appena varato il proprio – e quelli dedicati al business lunch in particolare ( come la torinese Morsy). Un’indagine della Federazione italiana pubblici esercizi sancisce che il 42,1 per cento dei lavoratori pranza spesso al bar, il 66 per cento tra trattoria e tavola calda (la somma non fa cento perché sono consentite risposte multiple), il 16,6 per cento in mensa e il 35,1 per cento mangia cibo preparato da sé nel luogo di lavoro o nelle vicinanze (per esempio al parco). La “schiscetta” dunque è ancora ben viva e la si trova persino già pronta nelle grandi gastronomie che magari preferiscono chiamarla” bento box” – la scatoletta compartimentata d’origine giapponese – che fa più trendy. «Stare nel valore di un ticket ottenendo qualità è difficile – dice Marcello Trentini, chef del ristorante Magorabin, stella Michelin a Torino —. Il bar è il posto giusto per i panini, la cucina si mangia in trattoria, che però ha tempi e costi non per tutti. Invece dedicare un quarto d’ora al giorno per prepararsi cibo fresco è la scelta migliore». Dunque, proprio a Trentini abbiamo chiesto di concepire sei “bento” che possano essere d’ispirazione ai lavoratori che abbiano a cuore il proprio stomaco oltre che il palato. «In generale consiglio di non esagerare con i carboidrati – dice il cuoco –, di portarsi verdure cotte con i condimenti a parte e magari di preparare una volta ogni tanto una ricetta che possa essere congelata a pezzi per poi rivivere nel microonde dell’ufficio: una lasagna, una parmigiana». Questa modalità naturalmente non esclude le altre: come dicono i saggi, la modernità è varietà.