Corriere della Sera, 25 ottobre 2018
L’autentico interesse nazionale
L’interesse nazionale, quello dell’intera comunità e non di parti di essa, dovrebbe consigliare al governo italiano di abbassare i toni e di dare ascolto alle osservazioni che arrivano da Bruxelles. Queste sono dettate dalla preoccupazione per gli effetti di ricaduta delle politiche di bilancio di ogni Stato membro sugli altri Stati, come è scritto quasi testualmente nel regolamento del 2013 che consente alla Commissione europea di esprimere il proprio «parere» sul progetto di documento programmatico di bilancio. Quel regolamento parla più volte di «dialogo». È consigliabile che, nel corso del «dialogo», una delle parti alzi la voce?
Se questo è un argomento di procedura e di stile, ce n’è un altro, che riguarda la sostanza delle scelte di bilancio. Queste sono ora sottoposte a due valutazioni, quella dei mercati e quella della Commissione europea. Le due valutazioni sono tra di loro formalmente separate, ma sostanzialmente collegate. Inoltre, le valutazioni dei mercati sono il giudizio sulla solvibilità del Tesoro italiano da parte non solo di speculatori, ma principalmente di piccoli risparmiatori che hanno investito i loro soldi in titoli del debito pubblico, di mutuatari che hanno bisogno di un prestito per acquistare l’abitazione, di banche italiane che hanno acquistato e intendono rinnovare acquisti di titoli del debito italiani.
I mercati, in altre parole, non sono nascoste divinità infernali che mirano al fallimento dello Stato, ma milioni di persone che hanno riposto la loro fiducia nella nazione alla quale appartengono e nelle sue istituzioni. Se si chiudono a tenaglia, con due valutazioni negative, i giudizi che provengono dall’alto (l’Unione europea) e quelli che provengono dal basso (piccoli e grandi risparmiatori, investitori italiani), ne usciamo con le ossa rotte. All’Italia non conviene fare la voce grossa per un terzo motivo. Molti argomenti sviluppati nel parere della Commissione dovrebbero farci riflettere sulle nostre scelte. La Commissione ci ha ricordato che il 28 giugno e il 13 luglio di quest’anno un diverso orientamento, rispettoso dei criteri concordati, era stato adottato unanimemente, con l’accordo dell’Italia, in riunioni del Consiglio europeo e del Consiglio dell’Unione europea. Ha osservato che spendiamo in interessi del debito pubblico una somma pari a quella per l’istruzione. Ha ricordato che siamo il secondo maggior beneficiario dei fondi strutturali europei e del piano di investimenti per l’Europa. Ha notato che l’Italia è il Paese più vulnerabile in caso di crisi. Ha ribadito che questa non è una tenzone tra Unione e Italia, ma è principalmente un conflitto tra gli italiani di oggi e quelli di domani, perché i primi mettono i sussidi e le pensioni di cui godranno a carico dei secondi. La Commissione europea avrebbe potuto aggiungere che la lunga elencazione di «misure volte a creare un ambiente favorevole agli investimenti», contenuta nella lettera del 22 ottobre scorso del ministro dell’Economia e delle Finanze alla Commissione europea, fa parte dei buoni propositi, perché non si è ancora cominciato a lavorare per tagliare e semplificare e perché farlo richiede tempo ed energie che il governo non ha. Infine, noi italiani dovremmo riconoscere che fare il braccio di ferro con la Commissione europea non conviene perché siamo soli. Non uno degli altri Stati europei appoggia la nostra testarda volontà di violare i patti sottoscritti, sia quelli del passato, sia quelli del giugno e del luglio scorsi. Una orgogliosa posizione «sovranista» si scontra con la realtà di un mondo che ha bisogno sempre più di collaborazione internazionale. Il ministro dell’Interno, che afferma di aver chiuso le frontiere all’immigrazione, chiede poi a gran voce la collaborazione degli altri Stati per ridistribuire gli immigrati. La prima è una politica «sovranista», la seconda va nella direzione opposta. Richiede all’Unione europea di dotarsi di maggiori poteri per imporre agli Stati l’obbligo di accogliere gli immigrati. Se gli Stati si riprendono la scena, questo non comporta che si possa fare a meno di potenti poteri sovranazionali. Se non se ne può fare a meno, si deve anche collaborare con loro e rendere loro conto delle proprie scelte, secondo il modello che si chiama della «horizontal accountability».