la Repubblica, 25 ottobre 2018
In volume gli scritti di Eco sulla tv
Vagito bitonale di modernità, la televisione italiana debuttò da un aeroporto. Era il 3 gennaio 1954, la trasmissione si intitolava Arrivi e partenze, da Milano Linate conduceva già lui, Mike Bongiorno. Due giorni dopo Umberto Eco avrebbe compiuto ventidue anni; in quello stesso 1954 si sarebbe poi laureato a Torino, con una tesi sull’estetica in Tommaso d’Aquino, e avrebbe preso servizio nella sede milanese della Rai, in corso Sempione, dopo aver vinto un concorso per funzionario. Studi filosofici e interesse per la tv si congiunsero al congresso internazionale di estetica di due anni dopo, a Venezia, dove Eco mostrò di avere già capito che la neonata televisione era la ripresa diretta e la diretta era quella forma comunicativa in cui il regista «si trova nella sconcertante situazione di dover identificare le fasi logiche di una esperienza nel momento in cui queste sono ancora fasi cronologiche». Il testo di quel suo intervento, poi pubblicato con il titolo Il caso e l’intreccio. L’esperienza televisiva e l’estetica, è il secondo che ora si incontra in un’ampia raccolta dei testi che Umberto Eco è andato scrivendo a proposito della tv, da allora sino all’anno precedente la sua scomparsa (Umberto Eco, Sulla televisione. Scritti 1956- 2015, La nave di Teseo, pagg. 534, euro 22). Nel montaggio che ha fatto l’ideatore e curatore del progetto, il semiologo Gianfranco Marrone, la raccolta si apre con la celeberrima Fenomenologia di Mike Bongiorno (1961) che a partire dal titolo è stata oggetto di innumerevoli tentativi di imitazione. Alcuni pensano che si tratti di un libro: in realtà consta di sole sei pagine. Il principio è che «la tv non offre, come ideale in cui immedesimarsi, il superman ma l’everyman», perfettamente incarnato dal signor Mike (le cui pur leggendarie doti di incassatore non bastarono a fargli digerire del tutto la satira di Eco). Fra molti testi assai noti ai lettori di Eco e distribuiti fra i diversi titoli della sua bibliografia ufficiale, il curatore Marrone ha reperito alcune perle meno in vista. Nell’articolata postfazione che chiude il volume, mostra come è stato attraverso la tv che Eco ha avvertito l’esigenza di approfondire gli aspetti formali dell’analisi dei linguaggi ed è così pervenuto, assieme a Roland Barthes, a fondare la semiotica: disciplina che per entrambi i pionieri si nutriva sia dell’analisi teorica sia del rapporto diretto con i testi; come conseguenza, si svolgeva sia nelle aule universitarie e nei convegni accademici sia, direttamente, all’interno degli stessi mass-media. Marrone individua sei fasi dell’interesse di Eco per la tv: la prima, estetico-sociologica, che a metà degli anni Sessanta diviene semiologica; da questa si sviluppa una critica anche militante, che porta alla definizione del concetto di “guerriglia semiologica” (come risposta del pubblico che arriva a deformare il messaggio e disinnescarne il potenziale ideologico). Fra gli anni Settanta e gli Ottanta Eco si sofferma sulle forme testuali, narrative ed enunciative, e definisce la “Neo-televisione”, quindi affronta il problema, anche etico, della “tv-verità” e dei nessi tra televisione, politica, giustizia, società. Infine, il rapporto con la Rete e l’intuizione che la tv avrebbe perso il suo carattere unico e specifico, nella commistione con gli altri media. La semiotica dei nuovi media parla infatti di “ri-mediazione”, per mostrare come ogni medium, tv compresa, sia luogo di transito e traduzione dei contenuti degli altri. A distanza di sessant’anni dai più remoti fra questi fatti, e al di là della devozione per un maestro del pensiero, pare fisiologico chiedersi che senso abbia ritornare a parlare di Lascia o Raddoppia? e Carosello quando la tv non è più neppure quella dei reality e, anzi, forse non è più del tutto. Ai cultori di un letteralismo sempre abbastanza peloso andrà specificato che la tv, certo, non è davvero, effettivamente, clinicamente morta. A parte il fatto che non sta certo troppo bene, è però una cosa sideralmente diversa non solo da quella dei tempi del matrimonio di Grace Kelly e il principe Ranieri (1956), né solo da quella dei tempi del matrimonio di Carlo e Diana (1981; le due cerimonie che furono scelte da Eco come esempio del passaggio da paleo-Tv a neo-Tv, in uno dei suoi contributi fondamentali, qui ovviamente raccolto), ma persino da quella della prima edizione del Grande Fratello (2000), a cui Eco dedicò una tempestiva Bustina di Minerva sull’Espresso. Fra le altre cose specificava che il vero e orwelliano “Grande Fratello” è «quello di cui si occupano i congressi sulla privacy, atto di vari gruppi di potere che controllano quando entriamo in un sito su Internet, quando paghiamo con la carta di credito in un hotel quando comperiamo qualcosa per posta…». Per il 2000 era una bella dritta. Per alcuni lo sarebbe anche oggi, c’è da temere. Oggi la tv fa spesso e volentieri a meno delle antenne e dello stesso televisore; la serialità televisiva (che già nel 1984 ispirò a Eco un altro saggio approfondito) si è spostata su canali diversi. Ogni couch potato è abbonata a Netflix. È cambiato tutto tranne il necessario atteggiamento teorico di far crescere i metodi analitici in rapporto ai testi. È rimasto quello, da quando Eco ce lo aveva indicato.