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 2018  ottobre 24 Mercoledì calendario

Con le sigarette elettroniche si smette di fumare?

Le sigarette fanno male, non c’è bisogno di ripeterlo. L’alternativa sarebbero le sigarette elettroniche: considerate il modo migliore per smettere, preferibili a cerotti o gomme alla nicotina. Domanda: Funzionano? Sono davvero innocue?
Come sono fatte le «elettroniche»? Le sigarette elettroniche sono state inventate nel 2003 dal farmacista cinese Hon Link. Oggi esistono centinaia di tipologie e produttori diversi, imitazioni comprese, ma il n° 1 resta la Cina. Non essendo soggette alle regolamentazioni delle tradizionali sigarette perché non contengono tabacco, i produttori raramente specificano le caratteristiche chimiche e le quantità delle sostanze contenute nelle cartucce con dentro la nicotina liquida.
Sono davvero innocue? Sappiamo che, non sfruttando la combustione come le normali sigarette, il vapore prodotto non contiene centinaia di sostanze tossiche e cancerogene che sono invece presenti nel fumo di tabacco.
Quindi sono molto meno pericolose, ma per nulla innocue. Dopo un uso nel breve periodo di sigarette elettroniche, per esempio, sono stati riscontrati effetti acuti sui polmoni – infiammazioni e resistenza delle vie respiratorie – attribuibili al glicole propilenico. Inoltre il vapore contiene particelle di dimensioni comprese fra 100 e 600 nm, il 12% delle quali raggiunge gli alveoli polmonari. «Non esistono studi che valutino la sicurezza a lungo termine per la salute umana – spiega Cinzia De Marco dell’Istituto Nazionale dei Tumori —. Anche nelle sigarette elettroniche ci sono decine di sostanze tossiche, come ad esempio la formaldeide che nel 2004 è stata dichiarata cancerogeno di gruppo 1 ed è presente in quasi tutte le sigarette in quantitativi non trascurabili». Poi ci sono le polveri sottili e i metalli pesanti, come cromo, cadmio e nichel, che possono provocare reazioni allergiche pesanti, e pertanto – conclude la dottoressa De Marco – «in mancanza di dati scientifici inequivocabili, non c’è nessuna ragione di considerare le sigarette elettroniche un’alternativa sicura a quelle tradizionali».
Aiutano a smettere? Secondo uno studio effettuato dall’università di Georgetown, se ogni anno il 10% dei fumatori americani passasse alle sigarette elettroniche, in 10 anni si allungherebbero le vite di 6,6 milioni di persone. Sono da qualche anno considerate il miglior metodo per smettere di fumare, preferibile a cerotti e gomme alla nicotina.
Il rischio però è che si diventi fumatori duali, ovvero si fumi sia sigarette elettroniche che tradizionali, aumentando il livello di nicotina assunto.
Dai dati dell’Osservatorio Fumo Alcol e Droga dell’Istituto Superiore di Sanità, emerge che il 25,7% di chi ha usato la sigaretta elettronica dichiara di aver diminuito leggermente o drasticamente il consumo di sigarette tradizionali. Il 14,4% ha invece smesso effettivamente grazie alle sigarette elettroniche.
Cosa ne sappiamo? In Italia ci sono 11,7 milioni di fumatori, il 22,3% della popolazione, e il 65% di questi prova a smettere senza riuscirci, spaventato dalle statistiche di mortalità: ogni anno, nel nostro Paese, 70.000 persone muoiono per malattie legate al fumo. I fumatori di sigarette elettroniche sono invece 1,3 milioni, il 67,8% dei quali però sono fumatori duali. Gli americani che fumano sono circa 40 milioni, e il mercato delle sigarette tradizionali vale ancora 120 miliardi, ma secondo uno studio di Wells Fargo, il mercato di quelle elettroniche è in rapida espansione e quest’anno arriverà a 5,5 miliardi di dollari, in aumento del 25% rispetto allo scorso anno.
Il rischio per i giovani Un mercato in espansione soprattutto perché sta catturando i giovani, e, in generale, chi non ha mai fumato. In Italia sta diventando di moda presso i ragazzini, ma non esistono ancora dati a riguardo, mentre negli Usa la Fda ha dichiarato che l’uso delle sigarette elettroniche da parte degli adolescenti sta diventando un’epidemia: i ragazzi di medie e superiori che nel 2017 ne facevano un uso regolare erano oltre due milioni. Per questo a settembre l’Agenzia Federale ha dato un ultimatum a produttori e rivenditori: devono dimostrare in 60 giorni di sapere tenere lontani i minorenni dai propri prodotti. In caso contrario potrebbe arrivare a vietarne la vendita.
La Fda ha preso di mira in particolare la Juul Labs, un’azienda che secondo Nielsen controlla il 72% del mercato statunitense e che spopola (soprattutto grazie a Instagram) fra i giovanissimi che non hanno mai fumato e detestano il fumo di sigaretta. Simile a una chiavetta Usb, il Juul è diventato un verbo: «to juul» che è l’equivalente di «svapare».
Il problema è che contiene un alto livello di nicotina e aromi accattivanti come quello al sapore di mango. Il rischio è che i giovani sviluppino una forte dipendenza da nicotina senza accorgersene, per poi passare alle sigarette tradizionali. E purtroppo sta già avvenendo.
La svolta della Gran Bretagna Ad agosto 2018, la Commissione Scienza e Tecnologia della Camera dei Comuni britannica ha iniziato una battaglia per incentivare i fumatori a smettere, passando a quelle elettroniche, e ha invitato il governo a pubblicizzarne la vendita, ad abbassare la tassazione e a permetterne l’uso in luoghi pubblici. Secondo la dottoressa De Marco, invece, il tema del fumo passivo al chiuso esiste anche per le sigarette elettroniche, perché emettono sostanze tossiche, anche se molto meno nocive rispetto a quelle provenienti dalla combustione del tabacco.
Regolamentazioni Nel mondo ci sono posizioni diverse sulle regolamentazioni. In Italia si sta discutendo se farle rientrare nel monopolio. Nel frattempo l’utilizzo al chiuso è consentito, tranne se altrimenti specificato, ma non c’è una legge che lo regoli. È normata invece la commercializzazione: non si può vendere liquido contenente nicotina ai minori di 18 anni, ma il mercato su Internet viaggia in libertà: compra chiunque e si vendono pure liquidi di produzione incerta che possono essere molto nocivi.
L’appello della dottoressa De Marco ai governi è quello di incentivare la ricerca indipendente, poiché oggi esiste solo quella finanziata dalle multinazionali che stanno cercando di stringere collaborazioni con enti universitari pagando gli studi.