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 2018  ottobre 24 Mercoledì calendario

Il carrozzone Alitalia-Fs ci costerà due miliardi e taglierà i treni pendolari

Il salvataggio a tappe di Alitalia inizia, cortesia del governo gialloverde, con un paio di certezze: la prima è che a metterci i soldi, in attesa messianica dei soci privati, saranno per l’ennesima volta i contribuenti, via Fs. La seconda è che per mettere in sicurezza la compagnia di bandiera si utilizzano i soldi destinati, in teoria, ai nuovi treni per i pendolari. Mettendo a rischio la solidità finanziaria (e il rating) delle Ferrovie senza avere ad oggi un reale piano complessivo per i trasporti nazionali che giustifichi il matrimonio tra l’aereo e il treno.
Una coppia promiscua (o un nuovo carrozzone di Stato, dicono i pessimisti) che nessuno al mondo ha mai provato a far convivere in comunione dei beni sotto lo stesso tetto.
L’accelerazione del ministro allo Sviluppo economico, Luigi Di Maio, sulla partita dell’ex-compagnia di bandiera ha una spiegazione semplice. «Secondo me se si fa un buon lavoro sul piano industriale di Alitalia, sui manager e i partner europei, probabilmente non ci sarà neanche bisogno di interventi pubblici» aveva detto il vice-premier ad aprile 2017.
Non è andata così, evidentemente. E ora il tempo stringe: entro fine ottobre scade il termine per la presentazione d’offerte per Alitalia. Tutte le avances arrivate sul tavolo dei commissari – da Lufthansa a Easyjet fino a Wizzair – chiedono una ristrutturazione preventiva della società con un corollario di esuberi (i tedeschi ne chiedono circa 4mila) di cui il governo non vuol sentire parlare. Il 15 dicembre l’aerolinea dovrebbe restituire al Tesoro il prestito ponte che l’ha tenuta in vita negli ultimi due anni. Un miliardo tra capitale e interessi che in cassa non ci sono. Morale: la bomba ad orologeria di Alitalia – che perde ancora più di un milione al giorno – rischia di scoppiare in mano al governo in tempi strettissimi. E la discesa in campo delle Ferrovie ha il pregio, dal punto di vista della maggioranza, di procrastinare – a spese del contribuente – il redde rationem, affogando nel mare magnum del bilancio delle Fs gli storici bubboni, le perdite (e qualcuno dice anche gli esuberi) della compagnia.
Quanto dovranno pagare ancora per il salvataggio di Alitalia gli italiani? A occhio e croce, in una prima fase, tra uno e due miliardi. Il Tesoro – se Tria e la Ue daranno il via libera (difficile) – convertirà una quota del prestito ponte in capitale per entrare con il 15% nel gruppo.
Spesa – viste le cifre indicate da Di Maio – tra i 250 e i 300 milioni, soldi che arrivano dritti dritti dalle casse dello Stato. Poi le Fs rileveranno il resto delle azioni, visto che malgrado i «tanti soggetti esteri interessati alla compagnia» (Di Maio dixit) e un iter di vendita che dura da più di un anno, nessuno per ora pare disposto a metterci un centesimo. Se l’equity – come ha detto il vice-premier – della nuova Alitalia sarà tra 1,5 e 2 miliardi, le Ferrovie dovranno mettere sul piatto (si vedrà se in contanti o come) almeno un miliardo. Soldi distratti al tesoretto da 6 miliardi necessario per rinnovare e ringiovanire i treni dei pendolari. Con il rischio, oltretutto, che Alitalia (in rosso per 500 milioni nel 2018) possa azzerare gli utili di Fs (che guadagna più o meno la stessa cifra). Chi paga a piè di lista, anche in questo caso, sono i cittadini, visto che i bilanci delle Fs stanno in piedi solo grazie a un ingente trasferimento di denaro pubblico, pari a circa 3 miliardi l’anno. Cifra abbastanza capiente per ammortizzare i guai di Alitalia e buona, dice il tam tam romano, anche per assorbire un po’ di esuberi del vettore – si parla di un migliaio – rendendolo più appetibile per un eventuale partner.
Nulla però è gratis. Mille dipendenti in più in carico ai treni sono mille stipendi in più da pagare, le risorse buttate in queste buste paga finirebbero per drenare altre risorse. E con la coperta finanziaria sempre più corta causa spese del matrimonio, il rischio è che possano rallentare gli investimenti sulle rotaie e si dilazionino nel tempo gli acquisti dei nuovi treni destinati a migliorare la vita quotidiana dei pendolari. La speranza delle Fs è quella di non trovarsi il cerino in mano quando sarà il momento di mettere mano al portafoglio per rinnovare la flotta a lungo raggio – anche qui balla qualche miliardo – necessaria a rilanciare il vettore. Onere che però – ha ventilato Di Maio – potrebbe essere girato a Cdp. Che procederebbe all’operazione, tanto per cambiare, con i quattrini degli italiani. L’argine a questa emorragia di denaro statale potrebbe essere l’arrivo del principe azzurro privato evocato da Di Maio. Ma i tempi non saranno di sicuro stretti. La “flotta di Stato” (copyright del presidente di Assolombarda Carlo Bonomi) torna così per ora in carico agli italiani.
E forse, come ha suggerito il numero uno degli industriali del Nord, sarebbe giusto chiedere a loro con un referendum «se vogliono pagare di tasca propria un’altra volta» il salvataggio della compagnia.