la Repubblica, 24 ottobre 2018
Il serial killer? È sull’albero (genealogico)
Joseph DeAngelo, 72 anni, sfuggito all’arresto dopo 13 presunti assassinii, 50 stupri e 100 rapine, non si sarebbe mai sognato di fare un test del Dna e metterlo online. A 40 anni dai suoi crimini pensava di averla fatta franca. Oggi invece si ritrova dietro alle sbarre in California, rimuginando su chi sarà stato, fra gli 800 parenti entro il terzo grado che ciascuno di noi inconsapevolmente ha, a fare il test e metterlo online. Giusto così: per la curiosità di ricostruire il proprio albero genealogico, spendendo 100 dollari, sperando di trovare fra gli antenati un founding father o un principe scandinavo. È bastato quel 2-3% di Dna analizzato che il cugino ignoto e il serial killer hanno in comune per portare gli investigatori all’arresto, con una tecnica che non è né legale né illegale. Perché la legge, a un caso come quello di DeAngelo e del suo parente curioso, non aveva mai pensato.
Prima gli alberi genealogici si disegnavano a matita. Nel 2000 in Gran Bretagna si ebbe l’idea di usare il Dna. Nel 2003 la tecnica prese piede anche negli Usa e venne sfruttata a fini commerciali. Oggi basta ordinare un kit online e inviare per posta un cotton fioc con della saliva. Nel 2017 una decina di aziende specializzate nel sequenziamento e dotate di un marketing agguerrito hanno soddisfatto la curiosità di 7 milioni di clienti. I loro database contengono le sequenze di 15 milioni di individui. Nel 2021 raggiungeranno i 100 milioni, stima uno studio su Genome Biology intitolato “La genomica per consumatori cambierà la tua vita, che tu abbia fatto il test oppure no”.
Le aziende promettono di tenere i dati segreti. Ma nulla vieta al cliente di prendere la sequenza, firmare un consenso e inserirla in una seconda banca dati, aperta, lasciando nome ed email. Il parente sconosciuto, consultando quell’elenco, potrebbe trovare le similitudini genetiche giuste e bussare alla porta. Foto e abbracci di questo tipo sono frequenti sui social Usa. «Sembra un gioco, ma sta diventando difficile da controllare», dice Lucia Scaffardi, professoressa di Diritto pubblico comparato all’università di Parma, autrice di Giustizia genetica e tutela della persona. Uno studio comparato sull’uso ( e abuso) delle banche dati del Dna a fini giudiziari. La conferma arriva da un gruppo di genetisti della Columbia University (New York) e della Hebrew University (Gerusalemme). Secondo i loro calcoli, una banca pubblica da 1,2 milioni di utenti, saltando di parente in parente, permette di identificare il 60% della popolazione Usa fra i bianchi di origine europea: il 75% degli utilizzatori dei kit online. La ricerca è su Science. La previsione dei ricercatori: “In un futuro prossimo la percentuale raggiungerà il 99%”.
Licia Califano del Collegio Garante per la protezione dei dati personali, docente di diritto costituzionale all’università di Urbino, ha dubbi che spaziano a tutto tondo: «Le offerte online per le indagini sulle origini genealogiche non sono affidabili. Presentano problemi di esattezza del dato personale. Ed espongono l’interessato a un uso incontrollato di dati. I rischi? Il riutilizzo non autorizzato e la profilazione indiscriminata, a vantaggio ad esempio di compagnie assicurative o aziende farmaceutiche per attività di marketing mirato».
Alla porta, nel caso di DeAngelo, non si è presentato un agente assicurativo. Era l’Fbi. Lo stesso negli ultimi sei mesi negli Usa è capitato ad altri 14 criminali seriali, individuati attraverso la traccia del cugino curioso. Gli investigatori di DeAngelo hanno ripreso un reperto di Dna degli anni ’ 70, che all’epoca non aveva dato riscontri. L’hanno inviato a una ditta di kit online. Ottenuta la sequenza, l’hanno caricata sul sito GedMatch: banca dati pubblica usata da oltre un milione di utenti. La ricerca ha offerto una ventina di parenti entro il terzo grado. A quel punto gli agenti hanno rimesso i panni dell’investigatore vecchio stile, seguendo i cugini uno a uno e individuando quello che più si avvicinava al profilo del killer. Hanno aperto la portiera della sua auto e raccolto un campione del Dna di oggi per confrontarlo con quello della scena del crimine. Caso risolto. Sondaggi negli Usa favorevoli all’operato dell’Fbi.
L’articolo di Science descrive le potenzialità del metodo. Inserendo un Dna su GedMatch si ottengono 850 parenti. Ammettendo che il criminale abbia agito entro 100 miglia da casa si esclude il 57% dei candidati. Conoscere l’età approssimativa del sospettato sfronda del 91% i parenti rimasti. Il sesso del presunto assassino restringe la lista a 16-17 persone: un numero agevole per delle indagini individuali. Facile. Ma è anche legale? «In Italia non lo sarebbe», spiega Scaffardi. «L’investigatore può anche seguire questa strada, ma le prove non sarebbero valide in un processo». Cosa vieta a ciascuno di noi, non solo agli inquirenti, di andare a sbirciare GedMatch? «Nel caso di DeAngelo – spiega Renato Biondo, direttore della banca dati del Dna italiana – gli investigatori hanno usato un’identità falsa. Hanno caricato su GedMatch il profilo del sospettato dichiarandolo come proprio». Le tecniche tradizionali di genetica forense, poi, stanno molto attente a sfruttare solo dei punti del genoma non codificanti: quello che un tempo era chiamato Dna spazzatura. «Sono sequenze genetiche che non hanno relazioni con i tratti fisici», spiega Daniela Scimmi, direttore tecnico capo biologo della polizia scientifica. «Né possiamo usare metodi, che pure iniziano a essere sufficientemente affidabili, per risalire al colore di occhi, capelli e carnagione». A spiegare la strada tradizionale, seguita in Italia e nel resto del mondo, è Carlo Previderè, capo del laboratorio di genetica forense dell’Università di Pavia, chiamato in causa nei casi di Yara e di Erba. «I profili genetici usati a fini forensi si basano su un set di marcatori particolarmente informativo. Questo set è stato validato nel tempo ed è condiviso dalla comunità internazionale. Su questa base sono costruite le banche dati forensi di vari paesi, anche per consentire lo scambio di profili. Quella italiana prevede 21 marcatori. Oltre a identificare la persona cui appartiene la traccia biologica, è possibile evidenziare le relazioni di parentela, perlopiù di primo o secondo grado. Le ricerche di genealogia usano variabilità del genoma di tutt’altra natura. Lì si può arrivare a 800mila marcatori».
Mentre in passato servivano quantità consistenti di campione biologico e l’uso del Dna era dunque confinato a stupri e delitti cruenti, «oggi riusciamo a fare analisi partendo da poche cellule», spiega Scimmi. «Con il touch Dna ci bastano le tracce lasciate dal tocco di una mano». Le tecniche tradizionali restano tutt’altro che superate: «La nostra banca dati – spiega Biondo – contiene i profili di 3mila individui sottoposti ad arresto e le tracce di 10mila scene del crimine, soprattutto furti, rapine, stupri e omicidi. I primi campioni sono entrati nella banca il primo gennaio 2018. A oggi abbiamo già individuato 30 soggetti legati alle scene del crimine. Rispettando le regole della legge e della privacy». Queste banche, conferma Califano, «restano lo strumento più adeguato nel delicato equilibrio tra privacy e repressione dei reati».