23 ottobre 2018
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Biografia di Roman Abramovič
Roman Abramovič (Roman Arkadjevič A.), nato a Saratov (Russia) il 24 ottobre 1966 (52 anni). Imprenditore. Proprietario del fondo d’investimento Millhouse (dal 2001) e del Chelsea (dal 2003). Politico. Già governatore della Chukotka (2000-2008). Secondo l’ultima classifica ufficiale della rivista Forbes, aggiornata al 6 marzo 2018, 140a persona più ricca del mondo e 11a più ricca di Russia, con un patrimonio netto stimato in 10,8 miliardi di dollari • «Irina, la madre, è morta alla vigilia del primo compleanno di Roman, il 23 ottobre 1967. Aveva la passione per la musica, era insegnante di piano. Aveva incontrato Arkady Abramovich a Saratov, nella pianura del Basso Volga, e lì era nato Roman. Nemmeno un anno dopo, Irina era di nuovo incinta. Impossibile tirare avanti con due figli, in quegli anni di povertà collettiva. Irina interrompe la gravidanza ricorrendo a un ambulatorio clandestino. Muore poco dopo l’intervento, stroncata dalla setticemia, a soli 28 anni. […] Nemmeno 18 mesi dopo la scomparsa della madre, Roman perde anche il padre. Arkady aveva studiato Ingegneria edile a Saratov. Ma dopo il matrimonio con Irina, per tirare avanti, si era dovuto arrangiare, lavorando anche al raccolto delle patate in un collettivo. Solo tornando nella regione di Komi con la moglie e il piccolo Roman era riuscito a trovare un impiego, nel dipartimento dell’edilizia del governo locale. Un giorno, ispezionando un cantiere, Arkady constata che i lavori sono bloccati perché la gru ha il braccio rotto. Decide di provare ad aggiustarlo, ma il braccio precipita, schiacciandogli le gambe. Muore dopo dieci giorni in ospedale, per lo choc post-traumatico. Ma Roman non resta solo. Nella comunità ebraica i legami di famiglia sono saldissimi. A prendersi cura di lui sono i due fratelli maggiori di Arkady, Leib e Abram. Unico discendente maschio, viene allevato da Leib e dalla moglie Ludmilla. Sono gli zii che sistemano le tombe dei genitori di Roman, con le lapidi in granito, identiche se non per l’arpa incisa su quella di Irina, a ricordare la sua passione per la musica» (Giancarlo Galavotti). «C’è qualcosa di genetico nell’istinto imprenditoriale di Abramovich. Lui, che ebbe un processo di formazione abbastanza ortodosso (frequentò prima l’Istituto industriale di Ukhta e poi, non essendo iscritto ad un’università abbastanza prestigiosa da permettergli di evitarlo, passò due anni di leva obbligatoria nell’esercito), finì per fare quello che di fatto faceva anche il suo padre adottivo. […] Leib, “un oligarca del tempo”, secondo la definizione della moglie (e madre adottiva di Abramovich) Ludmilla, era a capo del dipartimento forniture di una segheria statale a Ukhta, dove sostanzialmente si appropriava degli abiti e del cibo riservati ai lavoratori del posto per rivenderli sul mercato nero ad un prezzo più alto rispetto a quello fissato dallo Stato sovietico» (Dario Saltari). «Portava barba e capelli lunghi “per farsi prendere sul serio”, viveva in una catapecchia messa a disposizione da uno zio ed era più povero di un topo di chiesa. Possedeva due maglie e due paia di pantaloni, un paio di scarpe per tutto l’anno. Per risparmiare le sedie, usava sacchi di sabbia o cassette. Il frigo era eternamente vuoto, ma se qualcuno gli offriva un pasto mangiava poco per non fare la figura dell’affamato. Stava alla larga dalle donne. In più odiava il calcio, la vodka e le sigarette che vendeva al mercato nero fuori dall’Hotel Metropol, a due passi dal Cremlino. Ma, quando il suo primo datore di lavoro gli chiese cosa volesse fare nella vita, rispose: “Comprare tutto il mondo”. […] A raccontare l’esordio negli affari del padrone del Chelsea è stato Vladimir Tjurin, un passato di commerciante di giocattoli ed un business naufragato tra tasse e concorrenza cinese. “La prima volta che vidi quel ragazzino magrissimo – è il suo ricordo – fu quando prese un calcio nel sedere dal mio socio. Gli gridò di chiudere la porta e di portarsi via la sua brutta faccia da ebreo. Abramovich più tardi mi spiegò che non sopportava più il suo capo, perché non sapeva come si fa a guadagnare e non accettava consigli”. Era la fine degli anni Ottanta, il futuro governatore della Chukotka non aveva nessuno al mondo e nemmeno i soldi per il bus. […] Da Saratov sul Volga, il ventiduenne Roman decise di cercare lavoro nella capitale. Lo aiutò uno zio, cedendogli una topaia di una stanza sul Tsvetnoj Bulvar. “Mi colpì subito la luce dei suoi occhi quando si parlava di affari – racconta Tjurin –, e decisi di offrigli un posto nella mia ditta di animaletti di gomma. Abramovich li vendeva benissimo, sulle bancarelle. Dagli elefantini, grazie ad una sua idea, ci allargammo così a Cappuccetto Rosso e ai nanetti. Per gratitudine assunsi come commessa anche la sua prima moglie, Olga. La misi a vendere fermagli per capelli al mercato”. Il povero venditore di giocattoli si comportava già come se fosse un affermato businessman. “Agiva come se l’azienda fosse sua. Se cadeva una scatola non si muoveva: chiamava un operaio a raccoglierla. Se capitava di assaggiare caviale e salmone – prosegue Tjurin –, fingeva di non gradire per nascondere il fatto che non li aveva mai visti. Un giorno gli portai a casa un sacchetto con la spesa: scopersi così che viveva in miseria. C’era solo un vecchio tavolo di plastica, alcuni chiodi come attaccapanni, due cassette per sedersi e un materasso sul pavimento. I pochi soldi che guadagnava, Abramovich li investiva tutti in profumi, camicie bianche e pantaloni scuri: mi disse che lo faceva per poter dare ordini”. Non si lamentava mai, nemmeno quando il socio di Tjurin un giorno lo prese per il collo e lo sbatté sull’asfalto. “Gli si riempirono gli occhi di lacrime, ma non disse una parola”. Durò tre anni, fino all’89. Quel lavoro, al futuro fondatore della Sibneft, andava stretto. Gli affari, con l’invasione dei giocattoli orientali, peggiorarono. “‘Io ho tutto in testa’ – ricorda il suo capo –, disse quando fui costretto a licenziarlo per salvare il bilancio. Non aveva amici né prospettive. Eppure le sue guance ardevano, e quando se ne andò era sicuro che un giorno sarebbe diventato l’uomo più ricco della terra. Perse il posto da venditore di pupazzi e fu la sua fortuna: cinque anni dopo avrebbe potuto acquistare mezza Mosca”» (Giampaolo Visetti). «Alla fine degli anni ’80 Abramovich è niente di più di uno spacciatore di beni di lusso (per gli standard dell’Unione Sovietica: stiamo parlando di cioccolata, jeans, profumi, sigarette), che comprava a Mosca, dove si era trasferito con la sua prima moglie, e rivendeva a prezzo più alto a Ukhta. […] Quando Gorbachev tolse il divieto di impresa privata, Abramovich fondò la sua prima azienda, la Uyut (letteralmente, in russo, “comfort”), specializzata nella produzione di bambole e papere di gomma. Da lì, nei primi anni Novanta, Abramovich si espanse in altri campi (separandosi nel frattempo dalla prima moglie, secondo cui “sembrava che amasse il suo business più di me”), come la rivendita di copertoni e la selezione di guardie del corpo. È solo con il passaggio da Gorbachev a Yeltsin, però, che iniziò a puntare la vera gallina dalle uova d’oro: gli idrocarburi. La leggenda su come sia entrato nel business dell’energia, smentita dal diretto interessato e a cui possiamo solo decidere se credere o meno, è questa. All’inizio del 1992 Abramovich ha bisogno di raccogliere capitale per entrare in un settore che è troppo grande per le sue tasche, nonostante il nuovo Stato russo stia svendendo il suo bene più prezioso – idrocarburi: petrolio e gas naturali – ad affaristi di ogni tipo. La soluzione è originale: decide di dirottare un treno carico di tre milioni di chili di diesel dal valore di circa quattro miliardi di rubli, partito da Ukhta e diretto a Kaliningrad, falsificando i documenti ferroviari. Il treno arriva a Riga, in Lettonia, dove Abramovich si appropria del diesel e lo vende. Abramovich, all’epoca 25enne, viene inizialmente arrestato per frode, ma poi un misterioso benefattore gli permette di uscire di prigione e tenersi il guadagno. Ma la realtà probabilmente è più complicata di così. […] In quello Stato medievale che era la Russia degli anni ’90 per prendersi una parte di quella torta ricchissima che erano gli idrocarburi bisognava avere le giuste connessioni politiche, un capitale di un certo rispetto e addirittura “protezione fisica” […] nei confronti degli altri competitor. Abramovich riuscirà a trovare tutto questo in un unico uomo: Boris Berezovsky. Più anziano di vent’anni rispetto ad Abramovich, Boris Berezovsky ha fatto la sua fortuna sfruttando le privatizzazioni selvagge degli anni ’90 nel campo delle automobili e dei media. […] Poteva vantare connessioni molto profonde con la cosiddetta “Famiglia”: quel circolo di familiari e amici che per il presidente Yeltsin fungeva di fatto da gabinetto politico. In particolare, Berezovsky era riuscito ad entrare nelle grazie della figlia minore di Yeltsin, Tatyana, sommergendola di regali (automobili di lusso, per lo più). Tatyana era molto influente nei confronti del padre. […] Berezovsky conosce Abramovich nel 1995 sullo yacht di un amico in comune, e ne rimane subito affascinato. […] Abramovich serviva a Berezovsky nel suo progetto di appropriazione della Sibneft, una megacompagnia energetica nata dalla fusione tra la Noyabrskneftegaz (azienda che si occupava dell’estrazione) e la raffineria di Omsk, la più grande di tutta la Russia, con cui il futuro presidente del Chelsea aveva già fatto non meglio precisati affari. Grazie alle connessioni di Berezovsky, il governo Yeltsin – tra la fine di settembre e il dicembre del 1995 – creò prima, e poi mise in vendita, la Sibneft. L’acquisizione finì in favore di Abramovich e Berezovsky, circa due anni e 200 milioni di dollari dopo, per un’azienda che già nel 2003 valeva 75 volte tanto (15 miliardi di dollari). Con l’acquisto della Sibneft, Abramovich non divenne solo incredibilmente ricco ma anche pericolosamente potente, probabilmente più di quanto lo stesso Berezovsky si aspettasse. Negli anni successivi, Abramovich non solo si espanse con una disinvoltura sorprendente nel pericoloso campo dell’alluminio (tanto che i conflitti in questo settore sono stati chiamati “aluminium wars”) con l’acquisizione della NkAZ, ma soprattutto si sostituì lentamente a Berezovsky nel rapporto con Tatyana, la figlia di Yeltsin. Fu solo con il cambio di regime politico, però, che Abramovich si trasformò davvero in un oligarca. […] Nell’estate del 2000, appena eletto presidente, Putin vuole subito presentarsi come l’uomo in grado di riportare lo Stato russo al di sopra degli interessi particolari degli oligarchi, che sono ormai malvisti dall’opinione pubblica. Li riunisce tutti al Cremlino e cerca di stringere con loro un patto: potranno tenersi tutto ciò che si sono presi dopo la fine dell’Unione Sovietica a tre condizioni: non dovranno interferire col governo; non dovranno corrompere la burocrazia; e dovranno pagare le tasse. In caso contrario avrebbero perso tutte le loro proprietà, o peggio (una minaccia con un certo fondamento, in bocca ad un uomo che proveniva dal Kgb). Uno dei primi a venire meno a questo patto fu proprio Boris Berezovsky. […] La reazione di Putin sarà durissima: Berezovsky di lì a pochi mesi sarà costretto a lasciare il Paese in esilio e a vendere la sua quota in Ort (circa il 49%) [un canale televisivo che aveva criticato Putin – ndr]. L’uomo che si appropria della sua quota è proprio Roman Abramovich (che è ancora oggi proprietario di circa il 24% di quello che oggi si chiama Channel One Russia). […] Abramovich stava svolgendo un ruolo fondamentale nell’ascesa del cosiddetto nuovo zar. Aveva finanziato e dato un contributo logistico fondamentale al suo partito, Unità (oggi Russia Unita). […] Mentre Berezovsky si appresta a lasciare la Russia per sempre, Abramovich si candida a sorpresa a governatore della regione autonoma della Chukotka, nell’Estremo Oriente russo, forse per ottenere dei vantaggi fiscali per le sue aziende. Interrogato su quello che era il suo partner più vicino, risponde in maniera incredibilmente fredda: “Eravamo molto amici, ma Berezovsky non mi ha mai aiutato: ha sempre aiutato se stesso”. In appena cinque anni Abramovich è passato dall’essere un piccolo imprenditore di giocattoli ad essere l’oligarca più ricco e influente di tutto il Paese: mostrarsi vicino a Berezovsky non è più politicamente conveniente. Anni più tardi, quando condivideranno Londra come nuova patria, […] l’ex mentore non mancherà di vendicarsi del suo ex allievo portandolo in tribunale: […] “il processo degli oligarchi”. Abramovich nell’estate del 2012 vincerà quel processo, dopo che l’Alta Corte di Londra respingerà “nella loro interezza” le accuse di Berezovsky: cioè di essere stato costretto a vendere la sua quota della Sibneft dopo l’esilio a un prezzo stracciato (1,3 miliardi di dollari invece di 6,8, secondo la quotazione ritenuta giusta da Berezovsky). Ma per lui sarà comunque una sconfitta, perché quel processo ci permette oggi di fare luce su una parte fondamentale di un passato che custodisce gelosamente. […] Pochi mesi dopo, nel marzo del 2013, Berezovsky verrà trovato morto nella sua casa nei pressi di Londra, forse suicida: Berezovsky aveva passato gli ultimi giorni della sua vita in depressione, alla ricerca di un modo per trovare i circa 180 milioni di dollari di spese processuali che era stato costretto a pagare dopo la sconfitta nel processo. […] Fin dall’inizio del 2000 Abramovich ha iniziato a trasferire la sua famiglia e la quasi totalità del suo patrimonio in Gran Bretagna, un Paese storicamente avverso alla Russia da un punto di vista diplomatico. Ancora prima del Chelsea, compra per circa 15 milioni di dollari un’immensa tenuta nel West Sussex, tra Londra e Southampton. Nell’ottobre del 2005 vende la sua quota nella Sibneft per una cifra intorno ai 13 miliardi di dollari alla Gazprom, la società con cui Putin ha definitivamente rimesso sotto controllo statale gli idrocarburi russi. […] Poi ci sono i suoi investimenti immobiliari nel sud della Francia (nel 2003 ha comprato per circa 40 milioni di euro una specie di reggia sulla Costa Azzurra fino a quel momento proprietà del duca di Windsor) e in beni mobili di ogni tipo (jet, aerei – tra cui un Boeing 767 –, elicotteri, yatch), che possono essere considerati una forma di investimento. Così facendo, da una parte limita al minimo i rischi di interferire con gli interessi di Putin in patria, […] ma soprattutto si assicura da possibili ritorsioni nel caso in cui i rapporti con il presidente russo dovessero peggiorare. […] Quando decise di comprare un club in Europa, inizialmente puntò il Manchester United. Nell’aprile del 2002 andò all’Old Trafford a vedere una partita con il Real Madrid e subito dopo visitò il centro d’allenamento, con Rio Ferdinand come Cicerone. Alla fine, però, la scelta ricadde sul Chelsea. La leggenda vuole che Abramovich decise di comprare il club londinese in elicottero, mentre sorvolava Londra. “Cos’è quello?”, chiese indicando il Tamigi. E qualcuno, pensando erroneamente che si riferisse al quartiere che si affacciava sul fiume, rispose: “Chelsea”. Questo mito fondativo nasconde ovviamente una complessità più grande. […] Il Chelsea, con i suoi trofei, le sue stelle, la sua visibilità, è l’immagine più diretta ed evidente della grandezza di Abramovich. E, d’altra parte, i successi non sono riconducibili a nessun altro se non a lui: esiste una storia del Chelsea prima di Abramovich e una storia del Chelsea dopo Abramovich. Sarebbe stato lo stesso in un club già grande? […] I trofei […] diventano in quest’ottica centrali per scrivere il proprio nome sulla sabbia della storia» (Saltari). Da quando appartiene ad Abramovič, infatti, il Chelsea ha collezionato un gran numero di vittorie sia in ambito nazionale sia in ambito internazionale, tra cui cinque campionati inglesi e altrettante Coppe d’Inghilterra, una Coppa dei Campioni e una Coppa Uefa Europa League. «Fino allo scorso anno, […] Abramovich sembrava avere piani per un’ulteriore espansione del Chelsea, a cominciare dalla costruzione di un nuovo stadio sulle fondamenta di quello attuale di Stamford Bridge con un investimento di circa 1 miliardo di sterline. Poi c’è stato l’avvelenamento con il gas nervino dell’ex spia russa doppiogiochista Sergej Skripal a Salisbury, la cui responsabilità è stata attribuita dal governo britannico alla Russia facendo scattare una serie di sanzioni nei confronto di Mosca, tra cui una maggiore severità verso gli oligarchi legati al Cremlino che vivono in Inghilterra. Compreso Abramovich, che si è visto rifiutare il rinnovo del visto permanente con cui risiede e lavora a Londra da oltre un decennio. La sua reazione è stata acquisire la cittadinanza israeliana, come gli è stato possibile per la sua origine ebraica, grazie alla quale può visitare il Regno Unito senza bisogno di visto. Ma ciò non gli consente di lavorare in questo Paese. A quel punto le cose sono cominciate a cambiare. In maggio Abramovich non ha assistito alla vittoria del Chelsea, ancora in mano a Conte, nella finale di Coppa d’Inghilterra. I piani per il nuovo stadio da 60 mila posti (un terzo più di quello odierno) sono stati sospesi a tempo indeterminato. La campagna acquisti estiva non ha registrato grandi colpi – fino all’acquisto di Kepa Arrizabalaga per 72 milioni di sterline, la somma più alta mai pagata per un portiere. E adesso arriva lo scoop del Sunday Times sulla sua intenzione di vendere tutto. […] Le indiscrezioni del giornale inglese affermano che Abramovich ha già respinto un’offerta da 2 miliardi di sterline (circa 2 miliardi e 200 milioni di euro) nei mesi scorsi da parte di sir Jim Ratcliffe, l’uomo più ricco di Gran Bretagna. […] La cifra richiesta per cedere il Chelsea sarebbe dunque superiore a 2 miliardi: se l’operazione andasse in porto, stabilirebbe un nuovo record per il football mondiale» (Enrico Franceschini) • Tre matrimoni, sette figli: cinque dalla seconda moglie e due dalla terza, dalla quale sta attualmente divorziando • Grande passione per automobili, elicotteri, aerei e imbarcazioni di lusso, tra cui il celebre Eclipse, con 163,5 metri di lunghezza il secondo yacht privato più lungo del mondo. «Non è una teoria campata per aria quella secondo cui questa fame sia una sorta di compensazione del fatto di essere cresciuto da orfano. […] Abramovich finanzia ancora oggi una delle sue prime scuole in Russia, che dal canto suo non fa altro che ringraziarlo con telegrammi e targhe commemorative; e uno dei suoi primi atti da governatore della Chukotka fu quello di portare a proprie spese un gruppo di bambini poveri in vacanza» (Saltari) • «Abramovich incarna il prototipo dell’oligarca, di quella categoria, cioè, d’imprenditori senza storia e senza rischio che, approfittando delle nebbie della transizione, riuscirono a mettere le mani sui gioielli del patrimonio statale sovietico, diventandone i padroni. Il segreto d’Abramovich, stando a chi lo conosce bene, è una straordinaria capacità di passare inosservato, di mimetizzarsi nella folla» (Alberto Stabile). «Fino al 1999 non esiste tv o giornale che abbia una sua foto, tanto che quando arriva in Inghilterra un suo assistente gli consiglia di farsi fare un rassicurante book di foto istituzionali per soddisfare la stampa. […] Nonostante non parli mai in pubblico (e vieti spesso anche alle persone a lui più vicine di farlo), Abramovich sa perfettamente quanto conti dare un’immagine positiva di sé all’esterno. Una volta, parlando con Le Monde, dichiarò: “Sapete qual è la differenza tra un ratto e un criceto? Nessuna: è tutta una questione di pubbliche relazioni”. Lo studio della sua tenuta estiva fuori Mosca è tappezzato di libri finti, con la copertina e in bella mostra ma niente dentro» (Saltari) • «Quando Putin ha deciso di controllare lo strapotere degli oligarchi, ha dato delle possibilità di uscita. […] Abramovich l’ha usata. Si dice che da allora Putin mostri due foto a chi viene scovato ad evadere tasse e leggi e a intrallazzare: quella di Abramovich sul suo yacht e quella di Khodorkovsky in prigione. Basta scegliere» (Giulia Zonca). «Per come la vedo io, la Russia non è meno democratica di quanto lo fosse prima. È una nazione democratica. È democratica quanto basta».