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 2018  ottobre 23 Martedì calendario

La marcia dei disperati verso gli Stati Uniti

RIO DE JANEIRO Erano partiti in 300. Adesso, sei giorni dopo, sono 10mila. Avanzano a piedi, seguiti da auto, camion, furgoni, moto, biciclette, carretti, taxi collettivi. Ognuno con il suo fagotto, una borsa, uno zaino. Poche cose, raccattate in fretta, alle prime luci dell’alba, lasciando case e baracche, tavolacci al mercato, tuguri di campagna. Uomini, soprattutto. Giovani e gente più matura. Gli sguardi segnati dalla paura, il fisico asciutto con i muscoli tesi per lo sforzo. Ma ci sono anche donne, e bambini, spesso piccolissimi, portati in braccio, tirati per mano. Famiglie intere che si perdono e si ritrovano in questo serpentone umano lungo chilometri. Sono vestiti in modo semplice ma dignitoso. Niente stracci, forse i capi migliori. Quelli adatti ad affrontare una marcia che è anche un inferno: freddo pungente di notte, sole implacabile di giorno. Poco cibo, acqua razionata. E poi il sonno, la stanchezza, l’ansia di non arrivare alla meta, di fare tanta strada per nulla. “Non ce ne andiamo”, scrivono sui cartelli, “ci cacciano”. Una fuga dalla disperazione. Niente lavoro, tanta violenza. Sono partiti da San Pedro Sulas, un paesino dell’Honduras con il più alto tasso di omicidi al mondo. Puntano sul confine sud degli Usa. Ci hanno provato già nel marzo scorso. Sono stati fermati e si sono dispersi. Ma adesso è diverso, non hanno nulla da perdere. Partono con il groppo in gola; non è facile lasciare casa, genitori anziani, spesso mogli e sorelle. Un taglio netto. Attraversano tutto l’Honduras, varcano il confine con il Guatemala. La voce si è sparsa in tutta la Regione. Arrivano anche dal Salvador e altri ancora dallo stesso Guatemala. Con l’Honduras formano il famoso “Triangolo della morte”, dove comandano le armi e le gang che le imbracciano. Donald Trump annusa subito il pericolo che rappresenta questa carovana degli immigrati. Nessuno li ferma. Il presidente Usa si scatena su twitter. Chiede un intervento immediato del Guatemala. Rimprovera Honduras e Salvador. «Vanno fermati. Subito! Altrimenti», minaccia, «non avrete più un soldo. Niente più finanziamenti!». Il Guatemala lascia passare il fiume umano che adesso è formato da 5.000 persone. Diventeranno 7.000 e poi 10.000 quando raggiungono Tecún Umán, l’ultimo avamposto del Paese. Dall’altra parte, in Messico, c’è Ciudad Hidalgo. Sono divise da un fiume, il Rio Suchiade. Sopra, scorre il ponte Rodolfo Robles. A metà la polizia ha formato una barriera. La folla avanza. Volano bottiglie e qualche pietra. Gli agenti rispondono con i lacrimogeni e i gas urticanti. C’è uno sbandamento, molti cadono a terra. Le madri urlano, alzano i pugni, si mettono in ginocchio, pregano. La tensione di placa. Il ponte diventa il simbolo di questa sfida: gli ultimi contro i primi. Donald Trump è furibondo: «Manderò l’esercito alle nostre frontiere», posta su twitter. Non minaccia più, agisce. Rivolto a Honduras, Salvador e Guatemala, da sempre “cortile di casa” dei gringos, annuncia: «Sospenderò ogni aiuto nei vostri confronti. Da subito!». Ma la carovana è già entrata in Messico, è accolta con cibo e acqua dagli abitanti di Tapachula, nel Chiapas. La gente solidarizza con questi 7.233 immigrati registrati ufficialmente dall’Acnur, l’Alto Commissariato Onu per i rifugiati. Gli altri 3.000 hanno attraversato il rio Suchiate a bordo di gommoni e zattere. Trump perde la pazienza anche con il Messico. È esasperato. «Rispettate le leggi!», tuona. «Ogni volta che vedo delle persone che entrano illegalmente negli Usa mi ricordo che la colpa è dei Democratici. Ci impediscono di revocare le nostre leggi patetiche sull’immigrazione». Dai balconi del Chiapas lanciano cibo e altra acqua e ancora applausi. La folla che sfila in basso risponde con un boato: “Messico! Messico!”.