22 ottobre 2018
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Biografia di Pelé
Pelé (Edson Arantes do Nascimento), nato a Três Corações (Brasile) il 23 ottobre 1940 (78 anni). Ex calciatore, di ruolo attaccante. Storica bandiera del Santos (1956-1974), poi nei New York Cosmos (1975-1977). Asso della Nazionale brasiliana (1957-1971), con cui, unico calciatore della storia, conquistò tre campionati mondiali (1958, 1962, 1970). «Mettete tutti gli assi che conoscete in negativo, poneteli uno sull’altro: stampate: esce una faccia nera, non cafra: un par di cosce ipertrofiche e un tronco nel quale stanno due polmoni e un cuore perfetti: è Pelé. Ma ce ne vogliono molti, di assi che conoscete, per fare quel mostro di coordinazione, velocità, potenza, ritmo, sincronismo, scioltezza e precisione» (Gianni Brera) • «Il suo nome, Edson, fu voluto dal padre, il discreto centravanti Dondinho, perché in quei giorni carichi d’attesa del marzo 1940, nel paese di Três Corações, Tre Cuori, sud-est del Brasile, era arrivata l´elettricità. Sicché il battesimo cattolico di quello scimmiotto tutto nero, un vero "crioulo", un creolo, come lo chiamò una volta il medico della Nazionale, era stato anche una cerimonia in onore di Thomas Alva Edison, l´inventore della lampadina. Un buon auspicio per un giocatore predestinato: già papà Dondinho, vedendolo, appena nato, scalciare con le gambette magroline, aveva esclamato: “Sarà un grande calciatore”; il nome elettrico era la sottolineatura per un asso che avrebbe illuminato il calcio mondiale. […] "Pelé" giunse dopo altri soprannomi: "Dico", come lo chiamava lo zio e lo avrebbe sempre chiamato la mamma; e "Gasolina", quale lo etichettarono nel Santos, in onore di un cantante brasileiro» (Edmondo Berselli). «Ci sono due versioni sull’origine del nome “Pelé”: la prima pare derivi dal fatto che “O Rei” da ragazzino storpiasse il nome del suo portiere “Bilé” in una delle sue prime squadre giovanili; la seconda invece sarebbe derivata dall’abbreviazione del termine “pelada”, palla di stracci. La stessa con la quale il giocatore (di origini umili) cominciò a stupire tutti…» (Fiorenzo Radogna). «Erano poverissimi i Nascimento. Il papà, João Ramos, era il più umile uomo delle pulizie dell’ospedale di Bauru. E il piccolo Dico arrotondava il magro bilancio familiare facendo il lustrascarpe. João Ramos aveva sperato in una vita diversa, e aveva avuto anche l’opportunità di viverla. Ma il sogno brasiliano (diventare una stella del calcio) lo aveva sedotto e poi abbandonato giocando con lui come il gatto con il topo. Era stato un buon centravanti, João Ramos do Nascimento, ma ai suoi tempi, gli anni Trenta, centravanti ce n’erano di grandissimi, e il più forte era Leônidas, detto il Diamante Negro. Il nome di battaglia di João era, più modestamente, “Dondinho”. La sua carriera si svolse quasi per intero nel Bauru dopo che a un provino con il forte Atlético Mineiro era stato scartato (pare perché impaurito dalla violenza del difensore che lo curava). Ma era un buon giocatore, alto un metro e 83, molto tecnico (segnò cinque gol tutti di testa in una partita: record che, probabilmente, non è stato mai più battuto). […] È il giorno fatale del Maracanaço, il 16 luglio 1950, quando l’Uruguay batté (al Maracanã di Rio, per l’appunto) il Brasile sfilandogli un Mondiale che i brasiliani davano ormai già per stravinto. Alla fine di quella partita, che fu una tragedia nazionale con morti suicidi non metaforici, il piccolo Dico, 9 anni, per consolare il padre disperato gli avrebbe detto: “Vedrai, la Coppa del Mondo la farò vincere io al Brasile”» (Antonio D’Orrico). «È tutto vero. Io vidi mio padre piangere alla radio, quel giorno del 1950, e tutti gli amici attorno pure. E dissi: “Smettila, papà, perché io vincerò un Mondiale per te”» (a Rocco Cotroneo). «Mio padre era un calciatore professionista. […] Si ruppe un ginocchio e dovette smettere, e per me è stato un dono di Dio: mi ha insegnato la vita, non il calcio. Quando già a 10-11 anni iniziavano a esaltarmi, lui mi ripeteva che prima di ogni altra cosa dovevo divertirmi, giocare per puro piacere. Diceva che avevo molto da imparare e dovevo lavorare sodo. Mi spingeva ad allenarmi sempre, a non dare mai per scontate le mie qualità». «Waldemar de Brito […] lo vide giocare con la sua prima squadra, il Bauru, e chiamando in sede al Santos pregò tutti di prendere subito quel bambino, dicendo che sarebbe diventato in poco tempo il miglior giocatore del mondo. In effetti Pelé ci mise poco ad affermarsi. Il 7 settembre 1956, a 15 anni, giocò la sua prima partita con il Santos segnando anche il primo gol, entrando poi stabilmente in prima squadra l’anno successivo, quando divenne anche capocannoniere del Campionato paulista, e venendo convocato in Nazionale a soli 10 mesi dalla firma del suo primo contratto da professionista. Un anno dopo si trovò a giocare il Mondiale in una squadra che fino ad allora aveva sempre perso nell’occasione più importante. Dopo la seconda partita, Pelé sostituì Mazola, il nostro José Altafini, nell’attacco verdeoro e non uscì mai più, segnando in finale due gol, di cui uno votato come il più bel gol della storia dei Mondiali mai segnato in una finale» (Jvan Sica). «Chiaro che i carioca vincono alla grande il Mondiale del ’58, con Pelé che segnava facendo tre dribbling di fila e un "sombrero" sulla testa del difensore avversario, mentre la torcida sugli spalti ritmava: “Samba! Samba!”. Il quinto gol del Brasile lo fa lui, Edson, un colpo di testa lento e molle, al rallentatore, e l’emozione è tale che sviene davanti alla porta, con Garrincha che gli tira su le gambe per ossigenargli il cervello, in un clima di miracoli e di pensieri al padre Dondinho, e a una promessa rispettata. Tanto per chiarire il livello sportivo e civile del confronto, il freddo marcatore di Pelé, Sigge Parling, confidò agli amici: “Dopo il quinto gol anch’io avevo voglia di applaudire”» (Berselli). «Io di quella Coppa ho un unico, grandissimo orgoglio. Il Brasile, come il mondo lo conosce oggi, è nato nel 1958. Prima di quel trionfo nessuno sapeva nulla, molti nemmeno dove si trovasse sul mappamondo. C’era gente in Svezia che mi chiedeva se ero nato a Buenos Aires… Io sono fiero di aver dato un contributo al fatto che almeno nello sport, nel calcio, noi siamo diventati i più conosciuti, oltre che i più bravi, nel corso del tempo. Guardando indietro dico che, sì, ecco, questo mi basterebbe». «Dopo quella partita, tutto il mondo […] si rende conto di chi è Pelé e cosa vuole dire per il futuro del calcio. Quello che fece da allora in poi è appunto epocale: col Santos vince 10 volte il Campionato paulista, 5 Coppe del Brasile, 2 Coppe Libertadores, 2 Coppe Intercontinentali; 3 campionati del mondo con il Brasile. […] Dopo la vittoria del 1958, nel 1962 Pelé arrivò in Cile già infortunato e le carezze messicane alla prima partita lo costrinsero a saltare tutto il torneo. Ben sostituito da Amarildo e soprattutto da Garrincha, che prese sulle sue spalle l’intero attacco dei verdeoro, il Brasile rivinse il titolo, eguagliando l’Italia per mondiali vinti. La partita che decretava la migliore squadra di sempre e chi avrebbe portato a casa la Coppa Rimet si giocò proprio contro l’Italia nel 1970 in Messico. Il Brasile dei cinque numeri 10 (Pelé, Gérson, Jairzinho, Rivelino e Tostão) era davvero qualcosa di unico e incontrollabile. I nostri giocarono una partita coraggiosa e attenta, ma quella squadra straordinaria vinse facilmente per 4-1. facendo entrare Pelé direttamente al primo posto nell’Olimpo dei più grandi» (Sica). «Era la finale del Mondiale 1970, era Brasile-Italia. La partita dopo la partita del secolo, Italia-Germania 4-3. […] Era il diciottesimo minuto allo stadio Azteca di Città del Messico. I verdeoro effettuano un rimessa laterale, la palla rimbalza, Rivelino allunga la gamba, crossa al centro. Un cross a palombella, non forte, ma preciso. Un cross che spiove al centro dell’area di rigore, dove il numero 10 brasiliano salta, rimane a mezz’aria secondi che sembrano minuti, colpisce di testa nonostante Tarciso Burgnich avesse provato a ostacolarlo pure con il braccio, segna: 1-0 per il Brasile. Un gol divenuto cartolina, immortalato ovunque, da qualsiasi angolazione. Un gol che è Pelé, nonostante non sia il gol più bello di Pelé. Ma ne è diventato immagine, esposizione globale. Quella è la foto che fece conoscere il calciatore brasiliano in tutto il mondo. E, anche se c’era Tarciso Burgnich con lui, a contrastarlo, era come se non ci fosse davvero, era rumore di fondo. Un colpo di testa che diventa icona. E così un gesto spesso ignorato, perché si applaude altro – il dribbling, il tiro, la rovesciata –, diventa un lasciapassare globale, segno di riconoscimento. Quello è Pelé, non ci sono dubbi. Il 1970 sarà l’ultimo anno che il numero dieci della nazionale brasiliana sarà sulle sue spalle, l’ultimo, forse, del miglior Pelé. Fu soprattutto l’avvio di un progetto che si realizzerà solo cinque anni dopo. E questo progetto è forse il primo di un nuovo calcio, di una nuova èra fatta di calciatori che superano gli stadi e la stampa sportiva e diventano altro, un po’ divi, un po’ uomini di spettacolo. Quello dell’America (e del suo immaginario vastissimo) che entra nel pallone, che regala a New York il meglio che c’è stato per vent’anni, ossia Pelé, ossia mister oltre mille gol in carriera. È una maglia bianca bordata di verde, un numero 10 sulla schiena, il solito, quello dello stadio Azteca, ma più di quello dello stadio Azteca. È l’ultimo spettacolo di Pelé, la sua esistenza americana, la vetrina più grande in uno dei campionati, almeno allora (e forse ancora oggi), più scalcagnati al mondo. […] Pelé nel 1975 si considerava già un ex calciatore, aveva 35 anni, aveva voglia di rilassarsi, ma non aveva soldi per farlo. Glieli avevano in un modo o nell’altro fregati tutti i procuratori, i restanti aveva pensato lui stesso a sperperarli. Steve Ross, fondatore della Warner Communications e finanziatore dei New York Cosmos, il club fondato dai fratelli Ertegün nel 1970, era dai Mondiali messicani che pensava a come riuscire a tesserare il numero 10 della nazionale brasiliana, a come riprodurre ogni settimana Pelé nei campi da calcio americani. C’era però da convincere il calciatore, e per quello servirono 6 milioni di dollari in tre anni, allora una cifra mostruosa. C’era soprattutto da convincere il governo del Brasile, perché il capitano della Seleçao era considerato un patrimonio della nazione e lo Stato non avrebbe mai permesso la sua esportazione. Le trattative furono lunghe e difficili, ma, quando il 15 giugno 1975 O Rei calcò per la prima volta un campo da calcio americano, Pelé divenne, per la prima volta, un patrimonio internazionale. E non solo per il calcio» (Giovanni Battistuzzi). Il 1° ottobre 1977, il gran finale: «Pelé concludeva la sua carriera disputando un’amichevole tra le uniche due squadre di club della sua vita. Il Santos, società brasiliana che lo aveva lanciato (tra il 1956 e il 1974), e la squadra americana dei Cosmos (tra il 1975 e il 1977). La partita fu disputata nel Giants Stadium del New Jersey tutto esaurito e fu trasmessa dalle televisioni di 38 Paesi. “O Rei” per l’occasione giocò un tempo con la maglia locale e uno con quella del Santos. Gli americani, per la prima volta nella loro pur articolata (e ricca) storia sportiva, s’inchinavano davanti a un uomo di calcio, in un tributo che avrebbe segnato un’epoca. Forse il primo grande evento calcistico seguito in America con i numeri, il trasporto e l’emozione di una partita di baseball o football di alto livello. […] Quella partita quasi surreale (come un po’ tutto il calcio Usa era in quegli anni pionieristici) si concluse con la vittoria della squadra statunitense. In gol il talentuoso Reynaldo per l’1-0 del Santos. Quindi il pareggio di Pelé (con la maglia verde dei Cosmos) con una punizione da distanza “siderale”. Nella ripresa il “carneade” statunitense Mifflin, che aveva preso il posto di O Rei nei Cosmos, siglò il 2-1 finale. […] Durante l’intervallo, in quel 1° ottobre 1977, i newyorchesi ritirarono la maglia numero 10 di Pelé, che prese il microfono e con la casacca dei locali ancora addosso ringraziò gli ottantamila e tutti i tifosi in mondovisione. In un inglese balbettante, ma dolce e comprensibile come tutta l’emozione che trasmetteva. Poi pianse, portandosi le mani al viso. A fine gara, impugnando una bandiera del Brasile nella mano destra e una degli Stati Uniti in quella sinistra, fu caricato a spalla dai compagni di squadra e portato in trionfo fuori dal campo. […] Sotto la pioggia quel 37enne di Rio che aveva ubriacato una grande Svezia nel 1958, stordito una “rocciosa” Italia nel 1970 e vinto tutto il vincibile, uscì dal calcio giocato per entrare nella leggenda di questo sport. Dove resta tutt’ora, parametro senza tempo, a cui accostare (qualche volta a sproposito) altri aspiranti “calciatori più forti della storia”. […] Quando Edson […] si ritirò quel 1° ottobre 1977, aveva segnato la bellezza di 1.281 gol in tutte le competizioni (e le amichevoli) e con tutte le maglie. 1.281 reti in 1.363 partite, mentre in gare ufficiali aveva messo a segno 761 marcature in 825 incontri (media realizzativa: 0,92 gol a partita). Secondo le fonti ufficiali (anche quelle Fifa), si tratta di un primato assoluto. È lui, a tutt’oggi, il più grande goleador della storia del calcio. Questo malgrado fonti non ufficiali attribuiscano questo primato all’antesignano Arthur Friedenreich. Attaccante brasiliano a cui sono attribuite, forse per un errore di trascrizione, ben 1.329 reti dal 1909 al 1935» (Radogna). «Dopo il ritiro dal calcio giocato, […] salvo che l’allenatore Edson ha fatto di tutto: testimonial, attore, autore di colonne sonore, ambasciatore Unicef» (Giuliano Di Caro) • «John Huston lo volle in Fuga per la vittoria. Nel film prese il nome di Luis Fernandez, nativo di Trinidad: segnò, con un braccio incollato al petto dopo un fallo bestiale di un tedesco, il pareggio del 4 a 4 con una splendida rovesciata, detta la “chilena”, che fece scattare in piedi e applaudire anche il gerarca nazista» (Tony Damascelli). Ha inoltre collaborato alla produzione del film biografico Pelé dei fratelli Jeff e Michael Zimbalist (2016), incentrato sulla sua infanzia e sulla sua formazione di calciatore • «Oltre a vincere trofei, con il Santos girava anche il mondo, guadagnando ma soprattutto facendo guadagnare tantissimi soldi a dirigenti e faccendieri che seguivano allora la squadra della Perla Nera. Quel Santos giocò ovunque, con aneddoti incredibili che riguardano il suo numero 10. In Colombia un arbitro espulse Pelé, e il pubblico iniziò ad urlare e tirare di tutto in campo: fu allora che Pelé rientrò in campo, e ad uscire fu l’arbitro. Nel 1967, invece, in Nigeria si stava combattendo una guerra civile, ma a Lagos giocava il Santos, e allora le due fazioni in contrasto dichiararono un periodo di tregua per poter assistere pacificamente alla partita del più grande giocatore di calcio dell’epoca» (Sica) • «Il gol più bello di Pelé tra i suoi 1.282. Quello più straordinario. Segnato a marzo del 1961, nel torneo Rio-San Paolo. Il Santos vinceva 1-0 contro il Fluminense quando al 41’ Pelé scatta, si fa tutto il campo, e scarta sette avversari. […] “Sembrava una nave che faceva slalom tra le onde”, ricordano i suoi compagni Doraval e Coutinho. La palla alta scavalca il portiere, ricade, lui la ferma, per un attimo, sembra stare lì da sempre, sul collo del suo piede, poi la lascia andare clemente in fondo alla rete. Ha fatto tutto da solo. Verrà chiamato “il gol de placa”. Perché il giorno dopo nello stadio mettono una targa: “In questo campo il 5 marzo ’61 Pelé segnò il gol più bonito del Maracanã”» (Emanuela Audisio) • «Il suo modo di giocare era quello classico dei ragazzi in strada e sulle spiagge. Era l’amata ginga, lo stile che derivava addirittura dalla capoeira, la forma di lotta/danza praticata nella notte dei tempi dagli schiavi africani deportati in Brasile dai portoghesi. Il calcio era la prosecuzione della capoeira con altri mezzi: il dribbling, il palleggio, il colpo di tacco, il morbido stop di petto, il sombrero, il tunnel, la finta di corpo e tutti gli altri effetti speciali del pallone. Era quello che Gianni Brera chiamava il fútbol bailado del Magno Brasile. […] Per dire quanto era bravo Pelé, Brera scelse come pietra di paragone non un altro calciatore ma un grande poeta, Giacomo Leopardi. Ogni giocata di Pelé era, secondo Brera, come un endecasillabo di Leopardi» (D’Orrico). «È alto 1,73, mi pare; traccagnotto e potente, ma nello stesso tempo agile e sciolto, come i grandi atleti olimpici che corrono soltanto. Batte di sinistro e destro, sempre mirando. Dribbla con movenze armoniose, sornione, plastiche, senza sculettare o danzare come tanti. Rifiuta il numero di dribbling (el pase) come una manifestazione deteriore e inutile. È un vero classico. Dolce e chiara è la notte e senza vento. Pronunciate le comunissime parole di questo che è fra gli endecasillabi di più limpida trasparenza. Continuate: e cheta sovr’ai tetti e dentro gli orti… È mia nonna che parla affacciandosi nottetempo alla finestra. Mia nonna analfabeta e grande. Posa la luna, e di lontan rivela / Serena ogni montagna. Sapete che è Giacomino: ha il Parnaso fra le scapole, e i coglioni dicono che è gobbo. Bene: adesso guardate Pelé. Dolcechiaré: ha alzato il piedino prensile: lanotte: la palla si è fermata al primo contatto e senza vento: ricade ammansita sull’erba: un piedino prensile l’accarezza mentre l’altro spinge: echetasovraitetti: accorreva un avversario: si è coricato come un birillo: tettiposalà: avanza un altro: piroetta; lalùna: ecco un compagno smarcato: oppure, ecco una nuova battuta di dribbling: si corica il secondo birillo: o magari no, questa volta il birillo non si corica e vince il tackle: Pelé ha sbagliato il dribbling: càpita: anch’io ho dimenticato: sovr’ai tetti e dentro gli orti. Ripetizione: posalalunedì lontàn rivèla: ora parte Pelé in progressivo: è Berruti che vòlita fìngendo di allenarsi. Serenognì montàgna. Correndo, senza sforzo apparente, ha fissato i bulloni in terra ed ha scaricato fulmineo la pedata: ha mirato, si è visto: mentre correva ha mirato e battuto a rete. Serenognì montàgna. Punto. Gol. Mi dico di non aver mai visto nulla di simile. Gli dedico epinici. Mi esalto e lo esalto» (Brera) • Numerose relazioni e tre matrimoni (l’ultimo nel 2016, con una donna di oltre trent’anni più giovane, sua attuale consorte). Tre figli dalla prima moglie (due femmine e un maschio, Edinho, portiere poi allenatore condannato nel 2017 a 12 anni e 10 mesi di reclusione per riciclaggio di denaro proveniente da traffico di droga), due gemelli dalla seconda (una femmina e un maschio, Joshua, anch’egli calciatore), e almeno altre due figlie da altrettante donne • «C’è un momento in cui ha capito di essere il più grande calciatore al mondo? “Quando ho segnato il millesimo gol, al Maracanã (il 19 novembre 1969, a 29 anni, ndr). Era un rigore. Non ho mai avuto le gambe così pesanti. Quando la palla è entrata, mi sono precipitato verso la rete e sono rimasto col pallone in mano per godermi quel momento: avevo realizzato qualcosa in cui nessuno era mai riuscito prima”» (Adriano Ercolani). «Lo so, che per alcuni il dibattito è ancora aperto. Che Maradona, secondo costoro, è più forte di Pelé. In realtà, la decisione è stata presa da tempo, e lo stesso Maradona lo ha ammesso una volta. È stato Pelé, caso mai, a rimettere tutto in discussione quando ha dichiarato che il più forte di tutti è stato Di Stéfano (e una volta ha anche buttato lì il nome di George Best, il quinto Beatle). […] La questione la riassunse proprio Pelé con proprietà tecnica e con ironia: “Maradona non calcia di destro e non segna di testa, e l’unico gol importante che ha segnato di “testa” l’ha fatto con la mano”» (D’Orrico) • «Dio mi ha fatto il dono di saper giocare al calcio – perché è davvero solo un dono di Dio –, mio padre mi ha insegnato a usarlo, mi ha insegnato l’importanza di essere sempre pronto e allenato, e che oltre a saper giocare bene dovevo essere anche un uomo». «Alla fine, tutto quello che volevo dalla vita è essere uguale a mio padre, giocare a pallone come lui. Niente di più. Non sognavo certo di diventare un grande campione. E tantomeno Pelé». «Sono nato Edson, Dico, Nascimento. Poi, dopo, è venuto Pelé, quel tipo che non morirà mai».