Corriere della Sera, 22 ottobre 2018
Romanov, l’inferno in cantina
«Imputato Yakov Yurovskij, alzatevi!». Davanti all’ordine del presidente del tribunale, il compagno Yurovskij non si alzerà mai: è morto da decenni. E così Pavel Medvedev e gli altri uomini che presero parte un secolo fa, nel 1918, allo sterminio della famiglia dello zar Nicola II.
Anche gli scrittori, intellettuali, periti, storici russi che hanno appena inviato una lettera aperta a Vladimir Putin chiedendo di trascinare davanti a una corte di giustizia mandanti e autori della carneficina sanno benissimo che nessuno si presenterà in aula. Ovvio. Lo stesso papa Stefano VI, quando nell’897 processò il suo predecessore papa Formoso reo d’esser filogermanico, sapeva bene che era morto. Ma l’odio e la volontà politica d’un pubblico processo al «todesco» ebbero la meglio: «Il cadavere del Pontefice strappato al sepolcro in cui riposava da mesi – scrive Gregorovius – fu abbigliato coi paramenti papali e messo a sedere su un trono. (…) Allora il Papa vivente chiese al morto con furia dissennata: “Come hai potuto, per la tua folle ambizione, usurpare il seggio apostolico?”». Dopo la condanna, «i paramenti furono strappati di dosso alla mummia; le tre dita della mano destra con cui i Latini impartiscono la benedizione furono recise e con urla selvagge il cadavere fu trascinato via per le strade di Roma e gettato infine nel Tevere».
Ferocia impunita. Come feroci e impuniti furono un millennio più tardi gli uomini a cui Lenin affidò la strage della famiglia imperiale la notte tra il 16 e il 17 luglio 1918: «I Romanov vennero svegliati con l’ordine di prepararsi a partire immediatamente. Fu loro spiegato che si era creata una situazione di incertezza e che quindi bisognava raggiungere un luogo più sicuro – racconta Fabrizio Dragosei nel nuovo libro La Rivoluzione russa e la fine dei Romanov (Mursia) —. La zarina e le figlie indossarono di nascosto le sottovesti all’interno delle quali avevano pazientemente cucito durante la prigionia chili e chili di pietre preziose che avrebbero dovuto essere utili in caso di fuga ed esilio. Così, in realtà, si ritrovarono a indossare delle specie di corsetti antiproiettile che complicarono non poco le cose per gli assassini. La famiglia fu radunata nella cantina che Yurovskij aveva già ispezionato. (…) Dopo che lo zar e la moglie furono sistemati su due sedie portate all’ultimo minuto, Yurovskij annunciò con concitazione che “il soviet dei lavoratori” aveva deciso di giustiziarli. Nicola, preso alla sprovvista, fece appena in tempo a chiedere “Cosa?” quando fu raggiunto da un colpo sparato dallo stesso Yurovskij. I soldati aprirono il fuoco a loro volta, riempiendo la stanza di fumo, di frastuono e ferendosi anche tra di loro. Lo zar, la zarina e la figlia maggiore Olga morirono all’istante, così come il dottor Botkin, il cuoco Kharitonov e il valletto Trupp. Una nuova salva di colpi uccise la principessa Tatiana e ferì gravemente il piccolo Aleksej. Maria e Anastasia erano ferite solo leggermente, grazie alle loro sottovesti. La cameriera Demidova era stata protetta da un cuscino pieno di gemme che teneva in grembo. Gli esecutori si avvicinarono, sparando nuovamente e usando le baionette».
Pavel Medvedev, che rivendicherà d’aver sparato lui il primo colpo a Nicola II, aggiungerà nelle memorie che, nell’inferno di fumo e pallottole, «credette di vedere “un cuscino bianco che si muoveva dalla porta verso il lato destro della stanza”. Probabilmente si trattava del povero barboncino dei Romanov che correva pazzo di terrore…».
Che senso c’è, oggi, a fare quel processo che, scrive Dragosei, non riuscì nel febbraio 1919 al giudice istruttore Nikolaj Sokolov che, dopo la conquista di Ekaterinburg da parte dell’Armata bianca (e prima della riconquista sovietica), condusse un’inchiesta sull’eccidio, riuscendo a trovare «brandelli degli abiti, l’anello di zaffiro dello zar, gli occhiali e la dentiera del dottor Botkin?».
Il punto è che «per decenni tutta la questione dell’assassinio della famiglia imperiale venne tenuta segreta». Di più: per spazzare via i tentativi di qualche storico di ricostruire un giorno l’eccidio negato (la prima versione fu infatti che «a seguito della scoperta di un complotto delle guardie bianche volto a rapire l’ex zar e la famiglia, il soviet di Ekaterinburg aveva ordinato l’esecuzione di Nicola Romanov» e che «la famiglia era stata spostata in un posto sicuro») Yurij Andropov, capo del Kgb, ordinò nel 1975 la demolizione della villa del massacro. Ordine eseguito (scherzi della storia) dall’uomo che solo tre lustri dopo avrebbe messo al bando il Partito comunista e sciolto l’Urss: Boris Eltsin.
Fatto è che «il luogo della sepoltura venne scoperto da uno storico dilettante locale, Aleksandr Avdonin» nel 1979, ma «solo dopo il 1991 e lo scioglimento dell’Urss, le salme furono dissotterrate e si poté avviare la procedura per il loro riconoscimento, grazie anche alla comparazione del Dna con quello fornito da alcuni esponenti di case reali europee (compreso il principe d’Edimburgo, imparentato direttamente con Nicola II)».
Quel riconoscimento delle salme però, sancito dalla traslazione dei poveri resti nella chiesa di Pietro e Paolo a San Pietroburgo, non è mai stato ufficialmente avvalorato né dal patriarca Aleksij II né dal suo attuale successore, Kirill. Tanto che nel luglio scorso, anniversario del massacro, Kirill «ha guidato centomila fedeli in processione da Ekaterinburg alla foresta dove i corpi vennero sepolti. Sull’identificazione, però, niente». Anzi, il metropolita Tikhon Shevkunov ha spiegato che «l’indagine in quanto tale non è ancora terminata e, in aggiunta ai test genetici, numerosi altri studi ancora aspettano di essere completati»…
E qui torniamo alla lettera a Putin per chiedere un processo a Lenin e agli esecutori del delitto. Firmato per primo dall’oligarca Vasilij Bojko (famoso per aver imposto anni fa la catechesi nei suoi stabilimenti) e ispirato a quanto pare dal potentissimo padre Tikhon, «il confessore di Putin», l’appello ricorda al presidente russo che «è necessario che nell’investigare un affare così complesso come l’assassinio della famiglia dello zar coincidano i risultati di tutte le perizie: genetica, storica, antropologica, stomatologica e altre». Infatti «secondo i codici giudiziari russi solo il giudice di tribunale può emettere la sentenza definitiva sulla parentela tra singole persone». Conclusione: la Duma «dovrebbe varare una legge speciale su un’indagine globale al cui termine svolgere un processo agli assassini e mandanti (sia pure defunti)».
Solo un interesse storico? Mah… Dio non voglia che ci sia di più. Nella scia di secoli di ostilità verso gli ebrei (in Russia furono fabbricati i falsi Protocolli dei Savi di Sion e lo stesso Nicola II, scrive Dragosei, pensava d’esser vittima d’un «complotto giudaico») perfino il vescovo Tikhon si è spinto infatti a dire: «Vagliamo molto seriamente la versione dell’uccisione rituale. Una notevole parte della commissione istituita dalla Chiesa non ha dubbi che l’assassinio sia stato rituale». Travolto dalle reazioni della comunità ebraica, è vero, ha poi precisato che lui, per carità, non intendeva… Però la malizia è rimasta lì. In sospeso…