Corriere della Sera, 22 ottobre 2018
La mafia nigeriana tra eroina gialla, prostituzione ed elemosina
Non sarà ancora controllo del territorio. Ma l’agguato dello scorso settembre ai giardini Alimonda di Torino contro due poliziotti antidroga circondati e pestati da una trentina di spacciatori africani ci va molto vicino. Siamo tra Aurora e Barriera di Milano, accanto a quel corso Giulio Cesare così multietnico che gli ultimi bottegai locali espongono in vetrina il cartello «negozio italiano». La mafia nigeriana comanda qui: e non solo qui.
«Ho fatto tre informative a tre procure diverse, Roma, Bologna e Palermo, interessate al fenomeno che si sta espandendo a macchia d’olio in tutta Italia e tutta Europa», ha detto alla Commissione parlamentare sulle periferie il commissario della municipale Fabrizio Lotito, che ha lavorato con la procura torinese. Gerarchia, riti d’iniziazione, cosche chiamate «cult»: «Torino è la città con il maggior numero di immigrati nigeriani, a ruota segue l’Emilia-Romagna. Le nostre indagini su questo fenomeno mafioso vedono come attori principali i “cult” nigeriani, nati nelle università nigeriane degli anni Sessanta, poi evolutisi fuori e giunti anche in Italia: hanno struttura verticistica e dalle indagini abbiamo potuto ascrivere il 416 bis, l’associazione mafiosa».
Le vittimeBlack Axe, Maphite, Supreme Eiye Confraternity, Ayee sono nomi di «cult» che riempiono ormai da anni le nostre cronache; collegandoli come puntini su un foglio mostrerebbero forse un disegno più ampio, imbarazzante per un malinteso senso di correttezza politica: dibattere pubblicamente sui mafiosi nigeriani offre argomenti ai razzisti nostrani? È vero il contrario, perché le prime vittime dei «don» (i capi cultisti) sono ragazze nigeriane vendute come schiave sulla Domiziana e giovani nigeriani (i «baseball cap») ridotti a elemosinare davanti ai bar di Roma o di Milano per ripagare debiti di famiglia contratti in Nigeria.
Da Nord a Sud d’Italia s’avanza così la quinta mafia (dopo Cosa nostra, ‘ndrangheta, camorra e Sacra corona pugliese) con i suoi traffici milionari di cocaina dalla Colombia al Canada, la nuova eroina «gialla» spacciata nel nostro Nord-Est e i capi dei capi da sempre insediati a Benin City, che resta la casa madre e sta ai «cult» come San Luca sta alle ‘ndrine. Tecnici e puristi diranno che le mafie da noi sono troppe per farne una classifica, dalla russa all’albanese, dalla cinese alla multiforme mafia romana. Proprio il commissario Lotito lamenta inoltre che la mafia nigeriana sia vista «più come un problema di ordine pubblico». Un errore di valutazione, perché nessuna nuova mafia ha la sua pervasività: mille affiliati stimati in Italia (su circa 93 mila nigeriani immigrati), almeno venti città (Torino e Bologna in testa) e dieci regioni coinvolte nella sua rete che conta in giro per il mondo trentamila affiliati in quaranta Stati.
Da Benin City a PalermoIn Italia i mafiosi nigeriani hanno imparato a muoversi strategicamente. Famosa è un’intercettazione in carcere tra due mafiosi del clan Di Giacomo sui boss di Ballarò, centro di Palermo. «Lì ci sono i turchi» (intendendo persone di colore). «Quali?». «I nigeriani... ma sono rispettosi e poi... immagazzinano» (frase che per gli investigatori avrebbe un senso preciso: i «rispettosi» nigeriani di Black Axe detengono grandi partite di droga in accordo con Cosa Nostra).
Al Sud dove le mafie autoctone mantengono il controllo militare, la mafia venuta da Benin City cerca patti, come a Ballarò. Al Nord picchia duro: nel 2017, su 12.387 reati firmati dalla criminalità nigeriana (un quinto di quelli commessi da tutti gli stranieri da noi), 8.594 avvengono al Nord, 1.675 al Centro, 1.434 al Sud, 684 nelle Isole.
Torino è teatro dell’operazione Athenaeum dei carabinieri che fotografa il legame tra Maphite e Eiye. Giovanni Falconieri sul Corriere di Torino ha raccontato di un pentito che descrive i Maphite in termini sconvolgenti: «Sono sbarcati a Lampedusa e la gente ha paura di loro... Non hanno rispetto per la vita, hanno già sofferto troppo per arrivare in Italia». Il tema degli sbarchi inquinati dalla mafia di Benin City ormai emerge. Il giudice torinese Stefano Sala, in quasi 700 pagine di ordinanza, motiva le sentenze su 21 membri di Eiye e Maphite, e accende un faro: «I moduli operativi delle associazioni criminali nigeriane sono stati trasferiti in Italia in coincidenza con i flussi migratori massivi cui assistiamo in questi anni» (...), «tra gli immigrati appena sbarcati vengono reclutati i corrieri che ingoiano cocaina».
Lo stipendio dei capiUn «don», il capo della struttura locale, può ricevere uno stipendio di 35 mila euro ogni tre mesi. L’entità territoriale minore è la «zona», crescendo si sale al «temple» fino al «murder temple» di Benin City dove si elabora la strategia politica. Sembrano i primi verbali di Buscetta risciacquati nella globalizzazione.
Se Torino è la nostra città più permeata dalla migrazione nigeriana, Bologna è considerata «la capitale» del cultismo, lo spaccio nella centrale Bolognina e nelle periferie è da anni in mano ai Black Axe. Ma le ordinanze che si moltiplicano, con le operazioni di carabinieri e polizia, descrivono un’onda assai più lunga: Black Axe, a Palermo, 2016, sul gruppo di Ballarò; Aquile Nere, Caserta, stesso anno. Cults, a Roma, 2014. Niger, Torino 2005. Ancora Black Axe, Castello di Cisterna, Napoli, 2011.
Le schiave«Noi siamo nate morte», raccontano le schiave nigeriane della Domiziana al sociologo Leonardo Palmisano in un libro prossimo all’uscita, «Ascia Nera». Sono «asce nere», «Black Axe», i mafiosi che promettono la morte a Palmisano, troppo ostinato nell’indagarne i traffici. I ragazzi venuti da Benin City si sentono ormai abbastanza forti per quest’ultimo, minaccioso passo. Molta acqua è passata da questo allarme del 2011: «Vorrei attirare la vostra attenzione sulla nuova attività criminale di un gruppo di nigeriani appartenenti a sette segrete... riusciti a entrare in Italia principalmente con scopi criminali». Non il delirio di un balordo xenofobo ma l’informativa dell’ambasciatore nigeriano a Roma.