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 2018  ottobre 22 Lunedì calendario

La lingua alla ricerca delle regole perdute

Negli ultimi anni la Rete e i new media hanno privilegiato l’immagine sulla parola e sulla scrittura in particolare. Twitter è in declino, lo stesso Facebook è quantomeno entrato nella sua fase matura, i ragazzi si rivolgono a Instagram e la scrittura è sempre più spesso sostituita dall’oralità, grazie a file audio diffusi come podcast o come quelle note vocali che hanno demansionato il nostro telefono a segreteria telefonica, seguendo la tendenza che Umberto Eco ha riportato al passo del gambero.
Oltre alla voce, l’immagine sembra aver ripreso il sopravvento: post, news, musica, propaganda politica, intrattenimento, satira ora, si svolgono preferibilmente tramite video.
Prima le parole, poi le immagini: è successo con la stampa (che a lungo ha privilegiato la comunicazione verbale tipografica), con la radio (che è venuta prima della televisione), con gli sms (a cui solo in un secondo momento è stato possibile allegare immagini), nei social network (che hanno introdotto gradualmente fotografie e video). Con la curiosa eccezione del cinema, che è nato muto, la riproduzione della parola, specie di quella scritta, è più semplice per tecnologia e meno cara per economia, quindi arriva per prima. Del resto la linguistica strutturale ha insegnato che la parola è basata su differenze: è già digitale da sé, a differenza dell’immagine. Quando nuove tecnologie rendono più agile il trattamento delle immagini, ecco che ci accorgiamo della loro supremazia, basata sulla loro superiore capacità suggestiva.
Eppure l’immagine non può fare a meno di parole (non è mai esistita una civiltà dell’immagine: al massimo una civiltà della didascalia), mentre le parole, che danno l’idea di mancare sempre di qualcosa, in realtà possono stare da sole.
La preoccupazione per ciò che la Rete fa alla comunicazione verbale riguarda innanzitutto tre diverse forme di correttezza. La prima è la correttezza grammaticale. Gli errori grammaticali che si fanno in Rete sono più numerosi e più rilevanti di quelli che si fanno fuori dalla Rete? Sono generati dalla Rete, o la Rete li riporta in modo neutro?
La funzione della Rete non pare, propriamente, né genetica né di mera testimonianza. Ovvero, c’è testimonianza ma non è mai «mera»: nel riprodurre un errore, e fissarlo, la Rete ne facilita la diffusione (la «viralità», nella metafora sintomatica, e fuorviante); non lo legittima ma gli dà rappresentanza. Gli errori più tipici (apostrofi, doppie, divisioni fra parole, punteggiatura, costruzioni a senso) sono incertezze che riguardano il più delle volte la soglia fra il parlato e lo scritto.
Il secondo tipo di correttezza è quella sociale-comportamentale che a volte viene riportata alla nozione angloamericana di «political correctness» (ma chiarisce la filosofa Gloria Origgi: «In un paese come l’Italia in cui un ministro leghista solo qualche anno fa definiva gli africani “bingo bongo” non c’è proprio da aver paura dell’egemonia del politically correct», Micromega, 6/2018). La Rete ha aumentato il tasso di maleducazione, di turpiloquio, di odio? Ancora una volta non ci sono prove di una responsabilità diretta, ma una pertinenza pare di poterla indicare.
Infine abbiamo la correttezza logica e argomentativa. La constatazione di Umberto Eco, sul diritto di parola concesso dal web a qualsiasi imbecille, era di puro buon senso, né voleva essere altro. Occorrerebbe studiare, ma oggi chi ha studiato ciò di cui volta per volta si parla è visto con sospetto, se non con disprezzo, comunque con pregiudizio e sfiducia. «Ufficiale» non può essere una qualifica per il sostantivo «verità»: è considerata verità solo quella che si disvela e si presenta come negazione di una verità conclamata in precedenza. Si combatte il luogo comune, o si immagina di farlo: del resto i «like» arridono a chi sorprende e a chi riesce almeno a far sembrare inedito quanto dice e sostiene. Ma ogni luogo non comune, in una logica di comunicazione di massa, vuole diventare comune; ogni trasgressione cerca di diventare norma, ogni eversore vuole arrivare al governo. Si può lottare contro questo o quel luogo comune: non si può abbattere il fatto che senza luoghi che siano comuni non esiste né lingua né società.
La Rete è quindi un ambito di relazione umana – a tutti i livelli: intimo, personale, sociale, pubblico – che ci impone di rivedere la nostra idea comune di «correttezza» sia grammaticale, sia sociale, sia logica. La pressione che la Rete fa sul mondo che Rete non è non prevale ancora del tutto sulla pressione contraria.
Auspicare o temere un mondo in cui siano abrogate tutte le forme di correttezza (che è come dire: tutte le forme) pare insensato quanto pensare che le forme di correttezza del passato possano essere restaurate.
Nuove forme dovranno dunque sorgere, dalla Rete e fuori dalla Rete e a deciderne l’orientamento sarà o una cultura della comunicazione o leggi di mercato, svincolate e prevalenti sulle politiche nazionali. Come dire che avremo o la Rete come res nullius, a un tempo terra e arma di conquista; o la Rete come res publica, e terreno di confronto. Il tertium è datur: limitarsi a guardare le figure e smetterla così di fare parole.