La Stampa, 22 ottobre 2018
Livermore: «Alla Scala celebrerò il genio italiano con un’opera in cui il vero eroe è lo straniero»
Mancava solo il romanzo. Davide Livermore, torinese doc nonostante il cognome, è uno stakanovista dello spettacolo. Ha fatto o fa di tutto e di più: tenore, insegnante, scenografo, ballerino, direttore del Teatro Baretti, sovrintendente del Palau de les Arts di Valencia, direttore artistico di Prodea Group, che esporta show in tutto il mondo, autore e attore in W Verdi, Giuseppe, il miglior risultato del bicentenario verdiano (film ovviamente prodotto dalla tv svizzera, non da quella italiana). Più regista d’opera di successo internazionale, il 7 dicembre alla prima della Scala con Attila, ancora Verdi. Mancava, appunto, solo il libro.
Ed eccolo qui: 1791 - Mozart e il violino di Lucifero (Salani), scritto a quattro mani con la giallista Rosa Mogliasso e descritto come «un Codice da Vinci in chiave mozartiana».
Livermore, vuol darsi una calmata?
«Pensi che alla base del romanzo c’è un gioco di ruolo che ho inventato con i miei figli. Qualcuno mi ha fatto notare che era una trama perfetta per un romanzo. Allora ho chiesto a Rosa, che è una giallista vera e pure dotata di ironia. Lei mi ha detto: tu scrivi il secondo capitolo, io il primo, e vediamo se funziona. Beh, funziona».
Ma che genere è?
«Vogliamo chiamarlo un fantagiallo storico?».
Più fanta o più storico?
«Ha presente Bastardi senza gloria, la scena dell’attentato a Hitler? Non è vero niente, ma avrebbe potuto essere. L’importante è che lo spettatore stia in piedi sulla sedia dalla suspense. Abbiamo lavorato così, partendo da fatti veri ma dando loro connessioni inaspettate. Per esempio, è vero che Mozart tenne il suo ultimo concerto da enfant prodige in un hôtel particulier di Parigi davanti a Madame de Pompadour il 9 aprile 1764, ed è altrettanto vero che l’amante di Luigi XV morì cinque giorni dopo. È il legame tra i fatti che abbiamo inventato».
Ammetta che pensa a una sceneggiatura perché vorrebbe fare un film «vero».
«Chissà. Questo 1791 è rappresentabile e divertente. E sì, un film è esattamente quel che voglio fare da grande. Aspetto soltanto che qualcuno me lo proponga, perché credo che ci vogliano molti soldi e non so come si fa a trovarli».
Del suo Attila alla Scala non vuole parlare ma deve. Anticipazioni?
«Non è un’opera risorgimentale, come si è spesso detto. Gli italiani ci fanno una pessima figura, l’eroe romano Ezio è in realtà un traditore, il barbaro Attila un uomo d’onore. Verdi, al solito, ci dà lezioni morali sempre attualissime: arriva lo straniero ed è più civile di chi è già qui. L’invasore ha un’etica».
«Avrai tu l’universo / Resti l’Italia a me», canta Ezio. E giù i «Viva V.E.R.D.I.».
«In realtà, sta vendendo il suo popolo. Che sarà salvato da una donna, Odabella, vergine guerriera, che è anche lei una vittima della guerra. Durante il Preludio un video mostrerà come gli Unni le abbiano ucciso il padre davanti agli occhi. Da qui la sua sete di vendetta».
Però a teatro Attilas embra sempre «Conan il barbaro».
«Oppure Diego Abatantuono in Attila, flagello di Dio. Ho ambientato l’opera in una modernità senza riferimenti precisi, fuori da ogni periodo definito. Del resto, l’Italia nella sua storia è stata spesso invasa, l’ultima volta nel XX Secolo».
Fare Verdi alla Scala a Sant’Ambroeus spaventa tutti. Anche lei?
«No. It’s just a play, alla fine è solo un’opera. Io lavoro per Verdi. Benché notoriamente sproporzionato, il mio ego ha un senso se si mette al servizio di qualcosa di più grande. La prima è la celebrazione del nostro popolo, della nostra cultura, della nostra bellezza, di questa invenzione italiana unica e irripetibile che è l’opera, cioè la simultaneità di tutte le arti. Io la vedo così».
Ma al Regio, dopo i clamorosi Vespri siciliani del ’13, tornerà mai?
«Non se ne parla nemmeno».