il Giornale, 21 ottobre 2018
Neil Armstrong, l’ingegnere che andò sulla Luna per dimenticare la morte della figlia
Il Primo Uomo è nato di domenica. Il 20 luglio 1969, Viola Armstrong si è alzata alle cinque e mezza del mattino, per andare a messa. Qualche ora dopo, suo figlio Neil è sbarcato sulla Luna. Dopo qualche ora ancora, sempre suo figlio Neil è il Primo Uomo, quello che mette piede, per primo, sulla Luna. Quello che compie «un piccolo passo per un uomo», ma «un grande passo per l’umanità». Che lo dice, mentre tutto il mondo – che si trova molte miglia lontano, ed è un puntino «piccolissimo», che appare «fragile», indifeso da possibili attacchi dallo spazio – lo osserva, lo ascolta, lo ammira (qualcuno, già, lo contesta). Neil Armstrong, il Primo Uomo, era nato, in realtà, 38 anni prima (il 5 agosto del 1930: compie 39 anni mentre è ancora in quarantena, dopo il ritorno sul pianeta Terra) a Wapakoneta, una cittadina dell’Ohio. E bisogna dire che lui non è mai stato cacciato dal Paradiso, come Adamo: perché Neil Armstrong non ci è mai stato. La sua vita non è stata una passeggiata, anche se ne ha fatta una molto celebre... A proposito della quale, comunque, lui stesso diceva: «Camminare sulla superficie lunare, su una scala di difficoltà da uno a dieci, per me valeva uno. La discesa lunare, sulla stessa scala, probabilmente valeva tredici».
Ora, per capire queste parole, e non intenderle come una sbruffonata di un americano alto, muscoloso e arrogante solo perché è andato sulla Luna, bisogna ricordare qualche dettaglio del carattere, e delle esperienze, di Neil Armstrong. A tre anni impara a leggere, spronato dalla madre Viola che, oltre a essere molto religiosa, è anche una grande lettrice. In prima elementare, Neil legge cento libri. Inizia la quarta a 8 anni, e ne esce a pieni voti. Nei suoi primi quattordici anni di vita, la famiglia si trasferisce sedici volte, su e giù per l’Ohio: eppure, in ogni nuova cittadina o nuova scuola, Neil si ambienta perfettamente. Neil è, fin da bambino, un ingegnere: a suggellare questo suo stato dell’anima serve solo la laurea che arriva, puntuale, dalla Purdue University, dove segue il programma di ingegneria aeronautica. Frequenta grazie a una borsa di studio quadriennale, offerta da marina e aeronautica, che include tre anni di servizio militare. Sarà lui stesso a dire, molti anni dopo: «Sono e sarò sempre un ingegnere un po’ nerd, con i calzini bianchi e il portapenne da taschino, nato grazie al secondo principio della termodinamica, imbevuto di tabelle al vapore, innamorato dei diagrammi di corpo libero, trasformato da Laplace e alimentato da un flusso comprimibile». È stato un ingegnere, insomma, il Primo Uomo, First Man, come si intitola la biografia di James R. Hansen: una biografia autorizzata dallo stesso astronauta, che viene pubblicata in Italia (Rizzoli, pagg. 608, euro 20, in libreria dal 23 ottobre) in occasione dell’uscita del film omonimo, firmato da Damien Chazelle (che ha aperto la Mostra del cinema di Venezia nel settembre scorso e sarà nelle sale dal 31 ottobre). E in vista delle celebrazioni, il 20 luglio prossimo, dei primi cinquant’anni dallo sbarco dell’Apollo 11.
In quella missione erano in tre: Neil Armstrong, Buzz Aldrin e Mike Collins. Per autodefinizione di Collins, dei «cordiali estranei». Non c’era feeling particolare, e Buzz Aldrin patì tremendamente, prima, durante e dopo la missione, che non fosse toccato a lui l’onore del «primo passo». Neil era il comandante e, in teoria, sarebbe dovuto scendere per primo Aldrin dalla scaletta. Ma la Nasa decise diversamente: fu una «motivazione politica», come spiega Hansen, per anni storico per la Nasa e oggi professore emerito alla Auburn university dell’Alabama. I vertici della missione si incontrarono (informalmente) e decisero – come ha poi raccontato Chris Kraft, direttore delle operazioni di volo – che sarebbe stato Armstrong, il Primo Uomo. Ecco perché: «Sapevamo che sarebbe stato un nuovo Lindbergh e che la sua fama sarebbe stata eterna. E che tipo di persona volevamo per quel ruolo? Una leggenda, un eroe americano... Quell’uomo era Neil Armstrong. Neil era Neil. Calmo, tranquillo e profondamente sicuro. Tutti noi sapevamo che era il nostro Lindbergh. Non aveva un ego spropositato, non era il tipo pronto a pavoneggiarsi: Ehi, sarò il primo uomo sulla Luna!».
Non lo era. Era un ingegnere, aveva deciso di sposare sua moglie Janet dopo averla vista una volta (e, come precisò lei, «non era uno che prendeva in fretta le sue decisioni»), aveva perso una figlia di due anni per un tumore al cervello (e forse, suggerisce Hansen, fu anche questo dolore immenso, mai esibito, a spingerlo a candidarsi per il programma spaziale della Nasa, proprio pochi mesi dopo la morte della piccola Karen), era stato pilota in Corea del Nord (dove aveva rischiato di morire), aveva fatto il collaudatore di aerei pericolosi e sperimentali, aveva volato su razzi potentissimi e superveloci, aveva sperimentato la «centrifuga» a un numero di giri quasi disumano, fino a perdere il senno, aveva sfiorato la morte nella missione Gemini 8, nel 1965; e quando, nella preparazione per il programma Apollo, un veicolo di addestramento per l’allunaggio era impazzito e saltato per aria all’improvviso, e lui era riuscito a buttarsi fuori e a salvarsi per un istante, dopo pochi minuti si era seduto in ufficio e aveva ripreso a lavorare sulle sue equazioni. Armstrong studiava, collaudava, progettava, testava, si allenava. Quanto al suo ego, si esprimeva così: «Credo che ogni persona meriti di ricevere il giusto riconoscimento per i risultati che ottiene e per il contributo che dà al progresso della società. Ma bisogna fare attenzione a non esagerare»... Non parlava della famiglia e, dopo la missione, accolto da eroe, preferì nascondersi sul lato oscuro della Luna. Tornò in Ohio. Trovò un posto da accademico, all’università di Cincinnati. Ricevette medaglie, onori, proposte politiche (tutte rifiutate). Nel 2002, dopo tre anni di lettere ed e-mail, ha concesso a Hansen l’autorizzazione per la biografia. Soffriva di mal di mare, e di mal d’aereo. Al ritorno dalla Luna, la navicella fu recuperata in mare; mentre lui e Aldrin aspettavano i sommozzatori, erano terrorizzati all’idea di vomitare davanti alle telecamere. Ma, del resto, la mentalità delle missioni era di un certo tipo, come spiegò proprio uno di quei sommozzatori: «Ci dissero: prima salvate le rocce lunari. Di quelle ne abbiamo solo una borsa, di astronauti ne abbiamo tanti»...
Il più famoso, il Primo Uomo, è morto il 25 agosto del 2012, in un letto di ospedale, per le complicazioni di un intervento chirurgico.