La Stampa, 21 ottobre 2018
Isabelle Huppert: «Recitare non è difficile, dipende tutto dalla luce e da come ti illuminano»
L’unica sequenza che riesce a commuovere Isabelle Huppert è tratta dai Cancelli del cielo di Michael Cimino e l’unico momento in cui appare emozionata è quello in cui Toni Servillo, prima di consegnarle il Premio alla carriera, ne canta le lodi paragonandola a un’equilibrista capace di guidare gli spettatori nella scoperta di «quello che conosciamo e non conosciamo degli altri».
Signora d’acciaio della recitazione internazionale, esile in apparenza, in grado di sprigionare forza sorprendente attraverso personaggi sempre complessi, spesso disturbanti e provocatori, Huppert ha illuminato la terza giornata della Festa di Roma, tra i proclami politici di Michael Moore, al romantico, ultimo film di Robert Redford The Old Man & the Gun, agli annunci di Fabio Rovazzi che ipotizza futuri impegni da regista e alle dichiarazioni dello scrittore Jonathan Safran Foer che rivendica il carattere «democratico» della letteratura.
Strapparle confessioni inedite è impresa ardua, anche perché Huppert ama minimizzare il valore delle sue imprese artistiche e tende a riportare il tutto sul piano della semplice professionalità: «Non credo ci voglia particolare coraggio per interpretare i personaggi. Nella vita ci sono cose ben più complicate da affrontare. Se i ruoli sono costruiti in armonia, non ci sono problemi». E questo perchè «i film dipendono completamente dai registi, tutte le domande sono rivolte a loro. Se ci sono le risposte, ogni questione è risolta».
I maestri e un raro no
Tra i maestri cui deve di più ci sono Claude Chabrol, Paul Verhoeven e Michael Haneke con cui ha lavorato dopo aver detto uno dei suoi rari no: «Mi aveva proposto Funny Games. Avevo letto la sceneggiatura, non avevo trovato niente che potesse essermi utile per appellarmi al mio immaginario». Rivedendo una sequenza tratta dal Buio nella mente Huppert parla di «film marxista, sulla lotta di classe, in cui il mio personaggio, strano e terrorizzante, usava la parola come un’arma». Dei Cancelli del cielo rievoca le riprese lunghissime («Dovevano durare due mesi, furono sette») e il significato cruciale che il film ebbe nell’esistenza dell’autore scomparso: «Per Cimino fu una ferita mai rimarginata, era un regista straordinario, singolare, iconoclasta, non poteva resistere alle regole del sistema hollywoodiano. I personaggi dei Cancelli del cielo sembravano usciti da un sogno, ma avevano un significato molto politico, il film andò male anche per questo».
“Elle” e il caso Weinstein
Il teatro è una scuola diversa dal cinema, offre «il confronto con la memoria collettiva, perché spesso si interpretano classici», il cinema «mette in relazione più direttamente con se stessi, con la propria persona». E poi i film si basano «sull’arte dell’immediatezza, non ti puoi preparare più di tanto, la forza della macchina da presa si impone su tutto». La luce è elemento fondamentale nella vita di un interprete: «Noi attori dipendiamo dalla luce, possiamo apparire insignificanti o dire tutto, a seconda di come veniamo illuminati».Di Elle, che l’ha portata a un passo dall’Oscar, e che, poco prima dell’esplosione del caso Weinstein, descriveva la storia di una donna che stabilisce un rapporto con il suo violentatore, l’attrice si dice particolarmente fiera: «Le questioni al centro di Elle sono poste in una maniera molto più aggressiva rispetto al passato».
Ricevere il Premio alla carriera a Roma è il suggello di un rapporto di vecchia data con il nostro Paese: «Del vostro cinema mi ha sempre colpito il legame speciale con l’estetica». È stata diretta da Ferreri, da Bellocchio, da Bolognini e dai Taviani: «Di Vittorio - dice parlando improvvisamente in italiano - ho un ricordo bellissimo, giravamo in Toscana, in un paesaggio stupendo, aveva intelligenza e dolcezza uniche».