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La più esplicita delle immagini rinvierebbe a una vaga somiglianza con Gabriele D’Annunzio. Il che non potrebbe che compiacerlo visto che da dieci anni è presidente del Vittoriale, il luogo che il Vate predilesse negli anni dell’estasi guerriera ma anche del declino. Osservo nella penombra di un albergo romano la testa e il corpo di Giordano Bruno Guerri. È piccolo di statura. Calvo. E poi gli occhi: sembrano quelli di un pavone. Il labbro offre un’impercettibile fossetta. Mi aspetto che da un momento all’altro si insinui tra di noi l’ospite indesiderato del sublime. Quelle alate e ispirate evocazioni di cui il Vate fu maestro inarrivabile. Gli chiedo a quanti centimetri la sua vita è distante da quella del buon Gabriele. Mi guarda sorpreso, mentre i pensieri trottano su una voce lieve e cantilenante: « In una teorica scala dell’ammirazione solo le cose più in alto sono anche le più prossime ma le più difficili con cui identificarsi. Se penso a D’Annunzio immagino la metà che non sono riuscito a essere, ma anche tutto quello che ho succhiato dalle sue intuizioni e gesti che ne hanno fatto un italiano sui generis». Ho la sensazione che non sia tanto il lato immaginifico del poeta a catturare l’attenzione di Guerri quanto ciò che l’Italia non è mai riuscita a diventare. Non l’aspetto molle e volatile ma quello temerario e combattivo di un paese che quasi mai ha saputo corrispondere alla propria identità: «Forse perché un’identità vera non l’abbiamo mai avuta. E mai agognata fino in fondo. D’Annunzio, è vero, fu un’eccezione, ma lo fu nella capacità di tenere insieme il poeta e il soldato. La parola e il gesto. Il mio lavoro al Vittoriale si muove dentro a questo orizzonte in cui la bellezza, il gusto, perfino il pittoresco si fondono con la determinazione, prima ancora di testimoniare, di comprendere cosa fu quell’uomo in quel contesto».
Dieci anni allo stesso posto per uno che come lei passa per irrequieto è un record.
«Mi piace questo lavoro e vedo che va bene. Non ho mai programmato nulla nella mia vita. Mai fatto progetti. La sola cosa che mi interessa veramente è scrivere libri. L’irrequietezza, che spesso mi ha spinto a fare cose senza stare troppo a pensarci, è un po’ svanita».
Si sente una persona diversa?
«Ho incontrato una donna con cui sto insieme da tredici anni. Due figli. Uno nato che avevo cinquantacinque anni; il secondo sessanta. La differenza di età con mia moglie è di ventisei anni. È una contabilità apparentemente misera per un uomo che ha realizzato cose che avrebbe dovuto fare con più di trent’anni di anticipo. Ma è andata così. Non mi aspettavo che accadessero. Che la mia vita si rovesciasse fino a trasformarmi da impenitente ragazzo in uomo maturo».
Cosa rimprovera al suo passato?
«Ho fatto quello che ho voluto. Ed è questo il solo rimprovero. Ho agito con colpi di testa e spesso per puro spirito di affermazione».
Un narcisista un po’ autodistruttivo.
«Lo sono stato, forse anche per difendermi dall’irruenta volontà di essere ovunque, come se davvero fossi diventato una specie di icona estetica».
Con un lessico da superuomo.
«Lo stesso che avevo trovato in D’Annunzio e poi in Malaparte. Due esteti che amavano il lusso senza rinunciare al rischio della povertà. Malaparte discende da D’Annunzio e cinquanta anni dopo, in un contesto diverso, arriva Pasolini. Ma siamo sempre lì».
Lì dove?
«Nello stesso clima intellettuale: gente che ha il coraggio di rovesciare le cose ma non disprezza di convivere con qualche vertice del potere. Lei parla di lessico del superuomo. Farei questa precisazione: D’Annunzio, sulla scorta di Nietzsche, lo crea, Malaparte lo esalta per sé, Pasolini lo vuole umiliare sul proprio corpo».
Che Italia viene fuori da queste tre esperienze letterarie?
«È il lato minoritario del paese. Noi produciamo straordinarie eccellenze che non sono mai state in grado di dar vita a un vero Stato».
Forse è la condanna per aver prodotto il bello molto prima di tanti altri.
«La bellezza, con lo sguardo permanentemente rivolto al passato, è diventata un alibi. Per questo alla fine è meglio Marinetti».
Anche se poi pure lui è finito “pompiere”. Il suo passato come se lo rappresenta?
«Per quello che è stato: un mondo primordiale: duro, faticoso, indigesto ».
Allude alla famiglia?
«Sono stato il primo a laurearmi».
È accaduto a tanti della sua generazione.
«Voglio dire che in famiglia si leggeva e scriveva con una certa difficoltà. I miei nonni erano cavatori di ciocco. Andavano nei boschi anche per una settimana a strappare e raccogliere le radici del legno che servivano a far la radica delle pipe».
Dove vivevate?
«In un paesino toscano, tra Siena e Grosseto. Un centinaio di abitanti assediato da migliaia di cinghiali. Un posto chiuso. A tratti inaccessibile. Quando nacqui, mio padre, che era fuori, si fece gli ultimi tredici chilometri a piedi per arrivare in tempo ad assistere al parto».
Perché Giordano Bruno?
«Non era l’omaggio al filosofo che nessuno sapeva chi fosse. Dei miei due nonni uno voleva che mi chiamassi Giordano e l’altro Bruno. I miei accontentarono entrambi».
Cosa facevano i suoi genitori?
«Erano contadini che col tempo si inurbarono. Si erano amati poi la guerra li separò. Al ritorno mio padre si invaghì di una donna bionda e la sposò. Ma la relazione finì in fretta e allora tornò dal primo amore. Lei lo riaccolse e nacqui io. Ma allora non c’era il divorzio. Risultai figlio di N. N. e di Gina Guerri. Si sposarono a un’età ormai tarda. Avevo ventisette anni quando si dissero sì».
Lei di cosa si occupava?
«A quell’epoca facevo il fotografo. Mi piaceva. Vivevo a Fregene, non distante da Roma, in una casa del regista Francesco Rosi. Ci stavo con Gaia de Beaumont, la mia compagna di allora».
Torniamo ai suoi. Si inurbano dove?
«A Milano, lì fanno gli operai, i camerieri. Durante gli ultimi anni del liceo e quelli dell’università mi mantengo facendo il correttore di bozze per diversi editori, tra cui Longanesi, Bompiani, Sperling. Scrivo perfino un manuale a uso interno, credo ancora adottato nelle redazioni, dove metto a punto gli aspetti tecnici del correttore».
E poi arriva alla Garzanti.
«Nel 1973. Quando uscì il mio primo libro, su Bottai, Garzanti mi offrì il posto di redattore. Voleva che mi occupassi dell’Enciclopedia Europea. Gli risposi di no, perché la mia intenzione era di continuare a scrivere libri. Garzanti non era un uomo facile e interpretò quel mio rifiuto come un affronto personale».
Cosa pensò?
«Nonostante l’ammirazione per il modo in cui aveva creato e saputo imporre la casa editrice, lo reputai un sadico, Mi confinò in uno sgabuzzino, impedendo ai redattori di parlarmi. All’inizio la cosa non mi dispiacque. Mi ero messo a lavorare al libro su Ciano. Poi a lungo andare quell’isolamento, frutto di una crudeltà gratuita, mi procurò una profonda depressione».
Poteva andarsene?
«A un certo punto mi misi in aspettativa. Poi tornai. Ma il clima lavorativo era peggiorato. Decisi di licenziarmi e fu a quel punto che mi trasferii a Roma. Ero spaventato. Rinunciare allora a un posto fisso, il che mi fa venire in mente Checco Zalone, era da ascrivere a un gesto della follia. Ma in fondo non era quello che cercavo?».
Intende la trasgressione?
«La sola cosa che volevo davvero era scrivere. Conobbi Gaia de Beaumont ci sposammo, trascorrendo cinque anni insieme».
Perché il libro su Bottai?
«Era la mia tesi di laurea».
Alla metà degli anni Settanta c’era molta pubblicistica di sinistra. Gli storici facevano tesi su Gramsci o sul movimento operaio. Perché occuparsi di un fascista, anche se critico?
«Fu casuale, non sapevo nulla di lui. Mi incuriosì il fatto che non era un personaggio pittoresco. Oltretutto, dalla sua azione politica scaturiva l’immagine di una Italia culturale che ignoravo. Il libro fu pubblicato da Feltrinelli. La cosa curiosa è che uscì in contemporanea con il lavoro di De Felice sul fascismo e gli anni del consenso».
Solo una coincidenza?
«Diciamo che con sensibilità diverse analizzavamo un fenomeno fino a quel momento condannato pregiudizialmente. Tanto è vero che, nonostante il mio editore fosse Feltrinelli, mi si creò intorno l’alone dell’intellettuale nostalgico».
E un po’ non lo era?
« Mai stato. Sono un liberale, libertario ex libertino e soprattutto radicale».
Non ha aggiunto laico.
«La laicità è una categoria troppo vasta e onnicomprensiva. Allora preferisco anticlericale».
Ha studiato alla Cattolica.
«Università serissima che frequentai prescindendo da una fede che avevo perso».
In che occasione?
«Smisi di credere davanti al terrorismo di don Vittorio. Ci minacciava. Se non avessimo dichiarato tutti i nostri peccati, l’ostia deposta sulla lingua si sarebbe trasformata in tizzone ardente. Io non gli volevo raccontare tutti i fatti miei e lo capii il giorno della Comunione. Ero vestito da San Pancrazio. Il camice bianco testimoniava la purezza, le striature rosse erano il martirio. E io in ginocchio con l’ostia sulla lingua, terrorizzato che diventasse brace ardente. Fu in quel momento che smisi di credere».
Ma non ha smesso di occuparsi di Chiesa.
«L’ho fatto con vari libri. Uno dei quali dedicato alla storia di Santa
Maria Goretti che mi procurò un sacco di problemi».
Di che natura?
«Cercavo di fare luce su una figura che la Chiesa aveva avvolto in un’aurea di mistificazione. Quando il libro uscì il cardinale Parolin lo condannò dicendo che ero lo strumento del demonio. Perché strumento e non il demonio in persona? Ironizzai. Poi ci fu il caso di Io ti ascolto, un’inchiesta su che cosa accadeva nei confessionali. Causò la fine dell’amicizia con Leonardo Mondadori. Quando gli consegnai il libro decise di non pubblicarlo reputandolo inadatto. In quell’ultima fase della sua vita la crisi religiosa di Leonardo lo aveva spinto tra le braccia dell’Opus Dei».
Cos’è per lei il peccato?
«Il mio peccato capitale è l’ira. Come libertino ho sempre provato un particolare piacere a infrangere il comandamento contro la lussuria. Fu un modo per rifiutare l’educazione cattolica».
Contro una certa idea di etica?
«Machiavelli sosteneva che la Chiesa ha diviso gli italiani e li ha lasciati senza una vera religione. Sono perciò contro l’etica della doppia morale che la Chiesa ha quasi sempre praticato. I furbi, categoria molto diffusa nel nostro paese, nascono da qui. È l’Arlecchino servitore di due padroni. Il paese che invoca il cambiamento ma è sempre lo stesso. Siamo un grande popolo ma in ritardo su tutto. Abbiamo perso la sfida della modernità, non siamo quasi mai giunti in tempo sulle grandi scoperte».
Il tempismo è importante?
«Fondamentale. C’è un tempo della storia e un tempo interiore. L’ideale per uno storico come me sarebbe accordare le due dimensioni».
Che storico è?
«Amo il Novecento e mi piace raccontarlo. Lieto che i miei libri per niente accademici vendano molto. Ho sofferto perché quello più amato, dedicato a Ernesto Buonaiuti, ha venduto meno».
È così importante vendere?
«Non è solo questione di soldi ma di diffusione di un pensiero non conformista su di un autore o un personaggio. I dieci anni al Vittoriale sono serviti anche a cambiare l’immagine di D’Annunzio. Gli ho tolto la crosta del proto fascista, del peccatore, del dandy. Lui era un anarchico libertario. La convivenza mi ha mangiato vivo. Però era importante raccontare perfino quello che non sapeva di sé stesso. Ecco il tempo interiore».
Il suo come sta?
«Fino a cinquantacinque anni ho fatto quello che ho voluto: viaggiato, scritto, sedotto, trasgredito, recitato, drogato. Poi ho avuto la sensazione che non ci fosse più niente. Che niente avesse più valore. Mi trovavo noioso, fuori posto. Finto. Ero in condizioni terrificanti».
Come ne è uscito?
«Una lunga analisi mi ha aiutato a capire che non c’era niente di eroico in quello che facevo. Solo una modesta coazione a ripetere. Come Fantozzi, che quando deve prendere l’autobus per andare a lavoro si butta dalla finestra, così mi tuffavo avidamente nelle notti risucchiato nel mio piccolo abisso. Non è stato facile. I libri, la scrittura, la nuova moglie, i figli sono diventati i punti saldi. Nessuna tentazione, nessuna nostalgia, nessun richiamo dalla foresta».