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 2018  ottobre 21 Domenica calendario

Editor di ieri

Tra la fine degli anni Ottanta e i primi anni Novanta la vedevamo entrare e uscire dalle redazioni, la incontravamo in affumicatissime salette di bar di quartiere, la riconoscevamo da lontano procedere impettita con le sue borse di dattiloscritti: la storia recente degli editor italiani comincia con Grazia Cherchi. È lei ad annodare l’editoria del dopoguerra a quella, diciamo così, contemporanea. Da lei “passano” Benni, Baricco, Maggiani, e tanti altri. Da lei abbiamo imparato in tanti. A essere “con” l’autore e non al suo servizio. A lavorare sul testo ma anche ad accompagnarlo nell’avventura editoriale. Lei è la nostra leggenda, anche perché era quasi la sola a muoversi fuori dalle case editrici e a portarvi il lavoro fatto, finito. Sollecitava contratti, perfezionava accordi, chiedeva garanzie. Non era un agente, ma aveva a cuore la crescita di un autore.
Negli ultimi venti anni in Italia la figura dell’editor è diventata sin troppo familiare, troppo diffusa, troppo “facile”, come se la filiera del lavoro editoriale avesse preso luce anche negli aspetti meno visibili. Gli stessi autori, vuoi per vanità, vuoi per onestà, vuoi per deliberata ansia di possesso, hanno cominciato a usare insieme al tradizionale “il mio editore” anche altri, attigui, “il mio agente”, “il mio editor”.
Ho detto “in Italia”, poiché altrove, ma soprattutto negli Stati Uniti la figura dell’editor è sempre stata facilmente identificabile. Fatto sta che, a partire dai primi anni Novanta, anche in Italia si cominciano a individuare dei tratti professionali – già esistenti, ma non identificabili, se non attraverso un termine americano. Insieme al battesimo in lingua inglese arrivano leggende di cui si aveva solo una vaga percezione. Sappiamo così della pazienza di Maxwell Perkins, con Fitzgerald, con Hemingway, e soprattutto con Thomas Wolfe ( avremmo mai avuto un film su di lui, Genius, se non a fronte di una consacrazione del ruolo a livello internazionale? Si sarebbe mai intesa una battuta come “Tom, il libro è opera tua. Io voglio soltanto farlo conoscere al pubblico nella miglior forma possibile”?). E impariamo che l’obiettivo di un editor non è tagliare o riscrivere, bensì fare di un’opera letteraria un luogo abitabile. Sappiamo di Gordon Lish, e della smania di invadere e rifare (con Raymond Carver), fratello, nell’epopea del “taglio”, del Pound chirurgo di T.S. Eliot e della sua The waste land. Sappiamo ( e qui ci avviciniamo a leggende contemporanee) di Gary Fisketjon, oggi vicepresidente della Alfred A. Knopf Publishing, ma noto come editor di una ricca sequenza di autori come Bret Easton Ellis, Jay McInerney, Richard Ford, Cormac McCarthy. Fisketjon sa che, nella disanima degli snodi critici della narrazione, la soluzione migliore è sempre quella dell’autore, ma sa anche che, per l’autore, a quella decisione è difficile arrivare senza la presenza a metà fra il compagno, il confessore, lo psichiatra che è di fatto l’editor. Sì, perché quest’ultimo ha domicilio nell’immaginazione altrui, che è area di cautele, di sorveglianze (“Bisogna entrare in uno stato di trance. Perché un editor può solo appigliarsi ai riferimenti presenti nel libro”, ha detto Fisketjon) ma la sua funzione non si esaurisce dentro la pagina. Un editor di salda tempra accompagna opera e autore anche quando varcano entrambi il confine fra potenzialità ed esistenza. Ed è allora che l’opera pone domande: come la si racconta, come la si offre al lettore. Gli editor leggendari sono ispirati e meticolosi lettori ma anche disincantati driver di scritture verso la configurazione del prodotto. Le leggende ci suggeriscono che un buon editor può accendere micce culturali ma non fa saltare l’esplosivo se non è un creatore di sintonie che lavorano negli immediati dintorni dell’assillo letterario.
E forse è per questo che ci sono stati anche grandi funzionari-editor (lo stesso Elio Vittorini in Italia, creatore di collane, dunque di linee editoriali), agenti- editor ( Carmen Balcells, per esempio), editori- editor come Richard Seaver in Usa ( si legga la sua autobiografia pubblicata da Feltrinelli), Jorge Herralde, Beatriz de Moura in Spagna, Klaus Wagenbach in Germania, o figure complesse come Michael Krüger, storico publisher di Hanser Verlag, poeta e scrittore. E Krüger fa pensare per analogia a un sofferto funzionario- letterato dell’editoria italiana come Niccolò Gallo, raffinato studioso, lettore squisito che è stato, nella sua lunga collaborazione con Mondadori, l’uomo che con più competenza e forse con più macerate contraddizioni, ha saputo immergersi nelle dinamiche aziendali, con lealtà e rigore, modellandosi come editor ante litteram (siamo a metà ’900) e assicurandosi la fiducia e talora l’amicizia di scrittori, magari non immediatamente compatibili. Lo “stato di trance” di cui parla Fisketjon non è empatia, è mera occupazione temporanea dell’immaginazione altrui. Poi si sparisce, ed è bene che si sparisca.