Robinson, 21 ottobre 2018
Taglia, taglia qualcosa resterà
Cerchiamo di scegliere libri con questo criterio: evitiamo gli ammiccanti, i troppo facili. Impegnarsi nella lettura, a volte persino annoiarsi, è fonte di ricchezza». Così sentenzia Vincenzo Ostuni, la prima voce di questo breve viaggio tra gli editor italiani. Ostuni, che è anche poeta, lavora a Ponte alle Grazie: «Noi siamo i revisori, piccoli custodi della forza e della correttezza di una lingua. Troppo editing può giovare allo scrittore mediocre, mentre quello bravo ci rimette. Il gusto dei lettori è cambiato, però è rischioso assecondarlo troppo, si finisce per smussare pensando ossessivamente alle vendite e al mercato. In questo modo, la produzione letteraria si imbruttisce e scende di livello. Una volta si pubblicavano libri belli sperando che vendessero, oggi si pubblicano libri per venderli sperando siano belli».
Esiste una specie di leggenda a proposito di penna, matita e gomma tra le dita del feroce revisore. Quanto ci mette del suo? Quanto un romanzo appartiene davvero all’autore e non, anche, a quella specie di fantasma che cancella e riscrive con lui senza apparire? «In tanti anni qui dentro non ho mai visto un libro riscritto da un editor: se ce ne fosse bisogno sarebbe un libro sbagliato, da non pubblicare». Matteo Codignola è una delle anime di Adelphi, casa editrice nota anche per la cura maniacale della forma, non solo della sostanza: trovate un refuso lì dentro, se siete capaci. «Il sogno dell’editor è il testo perfetto dove non c’è da toccare niente. Però è una pietosa balla affermare che l’editing non serve: lo sa chiunque abbia scritto più di trenta righe in vita sua. Perché nel tuo testo non riesci a vedere il brutto, il ripetitivo, il mancante. La lingua muta di continuo, oggi possiamo fare i conti con testi che nascono per la rete e magari finiscono in un libro. Dove ti accorgi che non funzionano perché l’equilibrio della pagina scritta è molto diverso rispetto alle praterie di internet».
Le parole degli altri sono, in parecchi casi, parole che ancora non esistono, se non addirittura autori da immaginare. «C’è nel nostro lavoro una parte direi maieutica, una specie di scouting, di scommessa su uno scrittore o un libro che non ci sono ma ci saranno». Giulia Ichino lo fa per Bompiani, dove hanno preferito abbandonare la tentazione del grande nome che traina gli altri. «Mi piace seguire la crescita di un autore nuovo, facendo attenzione che non si bruci all’esordio. Si crea una specie di rapporto sentimentale: è impagabile scoprire una voce diversa tra le molte. Non è difficile, oggi, saper scrivere, ma farlo con carne, sangue e leggerezza è un’altra cosa. L’editing è anche mettersi in sintonia ma non è mai una riscrittura invasiva».
Tra le molte definizioni dell’editing, spicca quella della scrittrice Michela Murgia: “È come la pulizia dei denti, alla fine sono sempre i tuoi ma non li hai mai visti così belli”. Lo ricorda Paola Gallo, responsabile della narrativa italiana di Einaudi. «Il nostro mestiere non è spingere verso la normalizzazione, ma cercare l’alchimia con una persona che smette di lavorare da sola. Un libro è un lungo cantiere, una macchina che ha bisogno di bravi collaudatori e infatti in Einaudi ci confrontiamo molto, incrociando i testi. Si fa l’editing del proprio editing, si sottrae e si aggiunge. Ma soprattutto si sottrae: gli autori amano ripetere le cose due volte, però poi capita di vedere come brillano le stesse immagini quando rimangono da sole. I libri non devono essere perfetti ma simili a sé stessi. E sono frutto di innamoramento, come quando magari ti piace proprio la pancetta di quell’uomo lì».
Il gusto di una nuova scoperta, quando accade, aggiunge senso al mestiere. «Ormai lo faccio da tanti anni», dice Dalia Oggero che ha lavorato con draghi come Lalla Romano, Francesco Biamonti e Mario Rigori Stern, eppure «è sempre un’emozione ripensare a quando nel mucchio ho scovato Diego De Silva che mandò cinque paginette “alla spettabile Einaudi”, oppure alla lettera di rifiuto che avevo già scritto a Mariolina Venezia prima che mi cadesse l’occhio su qualche sua frase nel manoscritto e sorgesse il dubbio: alla fine, Mariolina ha vinto il Campiello proprio con Mille anni che sto qui. Anch’io penso che la coerenza valga moltissimo: bisogna entrarci in sintonia, portando il libro ad essere quello che è».
Il 2017 è stato l’anno magico di Angela Rastelli, editor dello Strega (Le otto montagne di Cognetti) e del Campiello (L’Arminuta di Di Pietrantonio). «Ma non esistono un metodo né un segreto, ogni volta è diverso scoprire come si lavora con le parole degli altri. Bisogna sforzarsi di cercare la misura: è il testo a dirti dove mettere le mani, perché il testo parla. Conta la densità dell’ascolto e non si raggiunge alla prima lettura, la soluzione giusta non è quasi mai a o b, ma c: con pazienza la si trova. Non si tratta di scovare gli errori ma di mettersi al servizio di un libro, con amore. Accade di far capire allo scrittore certe fragilità, oppure si può indicare una strada, uno sviluppo possibile. È una responsabilità e un privilegio». Miracoli della matita. «Ma la gomma resta in mano all’autore».