la Repubblica, 21 ottobre 2018
Come si entra ad Harvard
Vacilla il mito della meritocrazia nella regina delle università americane. Harvard premia i figli di papà. E con una scusa non proprio nobile: bisogna pur campare. Fondata nel 1636, capostipite dell’Ivy League che riunisce le più prestigiose università della East Coast, Harvard è per molti il simbolo di un’istruzione di altissima qualità, riservata ai migliori, e un trampolino verso carriere brillanti. In un’epoca in cui “élite” o “establishment” non erano parolacce, Harvard concentrava tutt’e due. Fucina della classe dirigente, ha sfornato 8 presidenti tra cui i due Roosevelt, Kennedy e Obama; tanti capi di Stato stranieri; un numero impressionante di Premi Nobel; un elenco sterminato di chief executive. Fa carriera perfino chi la lascia senza laurearsi: Mark Zuckerberg vi creò l’embrione di Facebook.
Iper-selettiva all’ingresso, dicono i numeri. In un anno riceve 43.000 candidature e ne accetta 2mila, meno del 5%. Ma con quali criteri si abbatte la mannaia? Qualche dubbio sul tasso di meritocrazia non è di oggi: fu harvardiano George W. Bush, non un genio, ma figlio di un presidente. Però i meccanismi decisionali erano protetti con una segretezza paragonata alla formula della Coca Cola o all’algoritmo di Google.
Attorno alle selezioni destra e sinistra si scontrano da decenni.Vista da destra l’accademia è troppo politically correct e dai tempi dell’“affirmative action” riserva quote alle minoranze etniche per promuoverne l’ascesa sociale, penalizzando i figli del ceto medio bianco. A sinistra si sottolinea che tra i laureati continuano ad essere sottorappresentati donne, neri, ispanici. Attribuire la colpa alla selezione degli iscritti era impossibile, però, visto il silenzio che circonda i lavori dell’Admissions Committee, al numero 86 di Brattle Street nel campus di Cambridge.
Ora non più. L’ateneo è costretto a rivelare i suoi segreti al tribunale federale di Boston. A trascinarlo davanti alla giustizia è stata l’associazione Students for Fair Admissions, accusandolo di aver discriminato degli studenti di origine asiatica. In un estremo tentativo di mantenere segreti i criteri, Harvard ha ingaggiato l’avvocato che difese Apple contro Samsung. Inutile, il mistero è stato violato, i verbali delle sessioni sono pubblici. E si viene a sapere che accuse e sospetti avevano qualche fondamento. Ha ragione chi denuncia favoritismi per alcune minoranze: Harvard ha un debole per i super-atleti (questo aiuta certi giovani afroamericani).
Premia l’etica del lavoro confuciana, come ha raccontato il giovane studente vietnamita Thang Diep. Al tempo stesso è un paradiso per gli straricchi. Esiste per loro una porta d’ingresso speciale. Si chiama “Z-List”, forse un’allusione al fatto che sarebbero gli ultimi della classe? Nei verbali emerge la “considerazione speciale” per i figli dei mega- finanziatori, quelli che elargiscono donazioni per la ricerca, meglio ancora se «hanno versato fondi per costruire edifici universitari». Idem i rampolli di dinastie «proprietarie di collezioni d’arte che potrebbero lasciare in eredità». Avere un occhio di riguardo per queste super- élite funziona. Harvard sta seduta su un capitale di 37 miliardi di dollari. Lasciate che i ricchi vengano a me, e qualcosa del loro passaggio resterà… Non che siano diversi Yale, Princeton, Stanford.
Campus iper- progressista nell’orientamento della popolazione studentesca, Harvard ha visto anche proteste singolari: c’è chi vorrebbe vietare la definizione degli Stati Uniti come «terra di opportunità».
Un’immagine “offensiva” per chi non riesce a sfondare? Quella protesta caricaturale era intesa a tutelare la sensibilità degli ultimi: neri e ispanici. I paradossi abbondano. L’affirmative action, figlia degli anni ‘ 60 e abbandonata nelle forme più estreme, ha lasciato un sistema dove migliorano a vista d’occhio i piazzamenti degli asiatici, i cui genitori difendono principi antichi. I professori hanno sempre ragione; e se fallisci è colpa tua.