Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2018
Sicuri che l’unicorno non esista?
La misteriosa, insospettabile, fragorosa bellezza silente degli arazzi – giardini fioriti su fondo rosso – del ciclo della «Dame à la licorne» è a pochi passi, nella prossima sala del Museo del medioevo di Cluny, pieno centro di Parigi. Chiunque arrivi nella sala, benché sia in un museo, e quindi tenda già ad ammirare in silenzio le opere che ha davanti, appena mette piede qui ha come un ulteriore segno di rispetto: letteralmente, questi arazzi che ci circondano mozzano il fiato. Sarà forse per l’imponenza delle dimensioni, sarà anche per l’eccezionale qualità artistica della resa delle immagini, sarà pure per l’indubitabile perizia dei maestri artigiani che li hanno tessuti; ma sicuramente, più di tutto, ciò che emoziona, cattura l’occhio, e illumina la stanza è la presenza leggiadra e serena di questo fantastico animale (e non animale fantastico) che ci regala il brivido imprevisto dell’apparizione.
L’unicorno è qui, in tutta la sua ieratica e superba, eppure leggerissima bellezza. Il corno lunghissimo, il volto equino arricchito di una barbetta da capra, l’espressione maestosa, posata e come ammiccante, si direbbe sorridente: ruba la scena, col suo nitore, persino alla dama, che pure figura sempre al centro dell’immagine, per non parlare del leone, suo compagno d’araldo, destinato a soccombere nel confronto impietoso. A differenza degli arazzi corrispondenti, per bellezza e rilevanza artistica, del Met Cloisters di New York, dove va in scena una drammatica, stolida, caccia, qui l’animale è al suo meglio. E non possiamo fare a meno di adorarlo.
L’unicorno, infatti, ci accompagna da secoli. Menzionato e raffigurato nelle più antiche civiltà, raggiunge l’apoteosi nel medioevo, quando non soltanto nessuno ne mette in dubbio l’esistenza, ma diventa l’animale in cima, nella scala della popolarità e del fascino, rispetto a pur degni compagni, come i draghi, i grifoni, le fenici. L’unicorno, lui, è unico: ha sempre intrigato gli zoologi, incuriosito i viaggiatori, solleticato gli artisti e fatto sognare i poeti. E oggi vive un momento di grandissimo ritorno e popolarità (dai materassini gonfiabili da spiaggia alle opere di molti artisti contemporanei, dal cameo importantissimo in Harry Potter ai gadget da autogrill): eppure molti dei suoi ammiratori non sanno nemmeno bene perché lo siano. Associano la sua figura, iconico candido cavallo bianco con un corno ritorto in fronte, spesso vicino ad un arcobaleno, a purezza ed esclusività. Eco, questi valori, di passate glorie e virtù, una volta ritenute certe. Il suo corno, del quale talora si serve per trafiggere gli avversari, narravano le leggende, è un potente antidoto al veleno, e se solo con la punta sfiora una fonte d’acqua la purifica all’istante. Sono molte le miniature in cui gli altri animali si dissetano grazie al benefico intervento di un unicorno. Sperso nei boschi, è scontroso e di impossibile addomesticazione. Ma è attratto dall’odore della verginità femminile: purezza chiama purezza, e così ecco che se una vergine viene posta in una radura recintata, lui arriva, le si accovaccia accanto e si addormenta dolcemente, la testa posata sul suo grembo. Così, purtroppo, gli uomini, con l’inganno, lo catturano.
Nei tesori di corti e cattedrali non mancava mai un suo corno, pagato a peso d’oro. Era, quasi sempre, un dente di narvalo, proprio come quello che ci accoglie, primo reperto, nella mostra «Magiques Licornes», fino al 25 febbraio 2019, al Museo di Cluny, casa, dal 1882, della serie di arazzi dalla «Dame», che abbiamo appena ammirato nella stanza attigua. È una mostra raccolta eppure raffinatissima: la scelta della curatrice, Béatrice de Chancel-Bardelot, è quella di concentrarsi solo sugli unicorni paragonabili per ruolo e funzione a quello del ciclo della Dama. Ecco manoscritti miniati, acquamanili, statuine di unicorni accanto alla Madonna (l’animale diventa presto simbolo cristologico), fino agli echi più contemporanei: da Gustave Moreau, a Le Corbusier, dal fumetto di Toni Ungerer ai costumi di Cocteau, al video di Maider Fortune: un unicorno prende una pioggia torrenziale, bianco contro la notte scura, emergendo da un buio bosco e illuminandolo. Come illumina anche noi ma..., poi torna a sembrare un cavallo. Forse è la chiave giusta. Di tutti gli animali leggendari dell’arte, letteratura, folklore e tradizione, l’unicorno rimane di gran lunga quello con la più grande presa sulla nostra immaginazione. Altri animali favolosi sono palesi invenzioni, presenze nel paesaggio mitico della creazione collettiva. Ma l’unicorno, no, l’unicorno è più di un animale immaginario. Sentiamo che è “ possibile”, anzi probabile, ancora meglio, auspicabile: ci cattura perché una creatura così dovrebbe esistere. Lo cantava Rilke: «Oh! questo è l’animale che non c’è. / Non lo conobbero, eppure l’hanno amato / – L’andatura, il portamento, il collo, / fino alla quieta luce del suo sguardo. / Certo non era. Ma poiché l’amarono divenne / un animale puro...». L’unicorno è il distillato più immacolato della nostra immaginazione e, di più, del nostro amore per la bellezza; le rappresenta nella forma più alta. La sua rivincita, scacciato dal sapere scientifico dalla zoologia, è stata rientrare dalla porta, più potente, dell’immaginario, a ricordarci che il meraviglioso è parte decisiva della nostra vita. Quella che dobbiamo coltivare più di tutto, a dispetto delle apparenze, contro la trama della vita quotidiana: perché un unicorno, credeteci, prima o poi, appare. Ed è, e lo è sempre stato, del tutto vero: come la finzione.