Il Sole 24 Ore, 21 ottobre 2018
Lode al vino, dolce nettare del padre Noè
La seconda età del mondo – nella tradizione esegetica medioevale – inizia con la fine del diluvio, quando Noè, uscito dall’arca, pianta la vite, produce il vino e si inebria. Non dunque, come volevano i pagani, Bacco è l’auctor vini, ma Noè, l’uomo giusto che ha salvato con l’arca – costruita secondo le prescrizioni di Javhé – tutte le specie viventi e, con la sua famiglia, l’umanità.
Ma perché, si chiede Ambrogio in un testo sul quale ebbe a richiamare l’attenzione Paul Tombeur, perché da homo iustus, Noè ha piantato la vite e non l’orzo o il frumento pur necessari alla vita dell’uomo? Risponde Ambrogio: proprio perché giusto si è preoccupato delle cose voluttuarie, sapendo che Dio provvede alle necessarie.
Il mito della piantagione della vigna, della produzione del vino e della ebbrezza di Noè agli inizi della storia dell’umanità dopo il diluvio, assicura al vino una posizione centrale in tutta la storia della civiltà cristiana. Non a caso proprio dal diluvio muove l’Encomio del vino del dotto bizantino Michele Psello (1018 – 1078/96), scritto attorno al 1042: l’età nuova, la nuova creazione inizia con la coltivazione della vite e la produzione del vino perché si tratta di un “bene eccellente”, di un dono del quale erano privi gli uomini della precedente generazione in quanto malvagi e destinati a essere distrutti dal diluvio. Per questo, sostiene Psello, Noè è come Adamo al quale disputa il primato per il bene che ha fatto all’umanità: Noè, scrive, «si disputa il primato con il progenitore Adamo o piuttosto si potrebbe affermare che non gli cede il posto; entrambi infatti trovarono una pianta, nel primo caso era rovinosa e mortifera, nel secondo utile e generatrice di vita».
L’Encomio di Psello si inserisce in una grande tradizione encomiastica greca e è stato opportunamente tradotto per la prima volta in italiano da Lucio Coco, specialista di civiltà bizantina. Ed ecco in apertura la celebrazione del vino: «Io credo che il vino è quanto di meglio gli uomini hanno trovato per il loro sostentamento e, risultando massimamente utile, a noi soli in particolare la natura lo ha assegnato (o piuttosto Dio che ha creato la natura) (…). Il vino è una cosa buona in ogni occasione e per tutti: per chi è di buon umore è un ausilio all’intensificazione dell’allegria; è buono per chi è sano per la conservazione della salute; è una consolazione per chi è depresso ed è una cura per chi è malato (…). In pace è un contributo, in guerra è un alleato; niente senza il vino, né feste nunziali, né banchetti, né conviti, né divertimenti, né svaghi (…). Il vino rallegra il cuore, incita alla gratitudine, muove al canto, genera commozione e richiama le lacrime che rendono propizio Dio».
Si accompagna a questo encomio del vino l’elogio dei sensi che più sono impegnati nel degustarlo, l’olfatto e il gusto; più importanti della stessa vista il cui primato era celebrato in tutta la tradizione filosofica, soprattutto platonica.
Del resto proprio la produzione e l’uso del vino – insieme all’esercizio della ragione – costituiscono la differenza fra gli uomini e gli animali: «come infatti – scrive Psello – dal punto di vista dell’anima differiamo dagli animali irrazionali a motivo della ragione, così anche il vino per ciò che riguarda il regime alimentare».
Per questo, prosegue Psello, «se qualche bevitore di acqua (vale a dire un idropico e un demente) afferma: “è possibile vivere anche senza il vino”, non avremo niente da obiettare né avremo bisogno di replicare a costui che fa a gara con l’evidenza e che manca di sensibilità, avendo scelto di vivere alla pari anche delle bestie nella volgarità e nella vanità».
È significativo che in questo Encomio del vino si alternino e si accostino testimonianze di autori pagani, ebraici e cristiani, tutti concordi nel celebrare le lodi del vino, la sua dignità, la sua origine divina: a Dioniso si accosta Noè, all’Ecclesiaste Omero, a Mosè Platone, a San Paolo Aristotele, così da sottolineare l’omogeneità e la continuità della tradizione mediterranea nell’esaltare il vino come fonte di salute e di gioia, dono di Dioniso o di Jahvè.
L’importanza del vino nella civiltà greca per i suoi valori terapeutici, euforizzanti, simbolici è nota: basti pensare all’irrompere drammatico e entusiasmante di Dioniso e alla diffusione dei culti dionisiaci nel mondo greco, così come alla centralità del simposio nella vita civile e culturale con i suoi riti legati alla mescita e al consumo del vino (si ricordi il Simposio di Platone). Ma esso è investito di un nuovo, particolare valore nel cristianesimo per i simboli di cui si carica nel Nuovo Testamento e che ne assicurano la continua presenza nella cultura cristiana. Il vino assume la sua centralità nel momento in cui, con l’ultima cena, diviene il simbolo del sangue di Cristo, del suo sacrificio, del prezzo pagato per il riscatto dei molti. Di qui spontanea la presentazione della figura di Noè come anticipazione allegorica di Cristo. Scriverà San Cipriano: «Noè, manifestando la verità futura, non bevve acqua ma vino, raffigurando così la passione di Cristo»; si canta nello Stabat Mater: «fa che io sia ubriaco della croce e del sangue del tuo figlio».
Tutta la vita di Noè prefigura la vita di Cristo, anzi è la figura di Cristo: Noe igitur Christus. La piantagione della vite, l’ubriachezza, la nudità di Noè sono per Agostino prefigurazione della vita di Cristo, fino al sacrificio estremo (denudatus), mentre la piantagione della vite significa e annuncia la chiesa, costantemente paragonata alla vigna del Signore; la stessa vite diviene anticipazione allegorica di Cristo – vitis allegorice significat Christum – e si identifica con l’albero della vita piantato nel paradiso terrestre: «Gesù benigno, vera vite, albero della vita piantato in mezzo al paradiso», si legge in un testo dal titolo significativo Vitis mystica (sec. XIII). Il gioco di parole vitis/vita è costante: «la vite dà la vita perché il vino è vita» scrive Alessandro Neckam, e un diffuso proverbio recitava, «il vino che proviene dalla vite ci dona le gioie della vita».
Temi tutti che ritornano nell’Encomio di Psello con grande efficacia: «una sola cosa dirò tra le altre, quella più importante e incontestabile da parte degli stessi scettici: niente in assoluto è migliore del vino né equivalente a esso, rappresentando il sangue divino nei mistici sacrifici, la purificazione dal peccato e la salvezza di tutto il cosmo».
Non è quindi un caso se Psello – celebrando il vino come «la cosa più nobile e insieme la più amabile e la più idonea per la cura del nostro corpo» – applichi a questo dono «insuperabile e incomparabile» quanto Platone nel Timeo diceva della filosofia «della quale non venne nessun bene maggiore al genere mortale come dono largito dagli dei». Anche per Agostino il vino costituiva un munus dei, dato in iucunditatem – aveva scritto Ambrogio – per la gioia degli uomini, per l’esaltazione dell’anima e del cuore. Di qui a prefigurare la beatitudine celeste il passo è breve: allora saremo «inebriati del vino di eterna dolcezza».