La Lettura, 21 ottobre 2018
Gilbert&George: «Noi, ragazzi di campagna»
Una vita (doppia) vissuta come una performance continua, una performance da mettere in scena giorno dopo giorno come si trattasse della «replica» di uno spettacolo di rivista. Palcoscenico privilegiato, quell’ex-bassofondo dell’East londinese chiamato Spitalfields, negli anni Settanta quartiere dormitorio per lavoratori e oggi ritrovo di artisti e intellettuali (Tracey Emin, i Chapman Brothers), dove «basta sedersi su una panchina alla fermata del bus per veder passare tutto il mondo». Lo stile? Certo non quello intellettual-snob di un Bob Wilson; piuttosto, quello surreale e crudele di un Lindsay Kemp.
Benvenuti nel mondo di Gilbert Prousch (1943) e George Passmore (1942), di Gilbert&George, da sempre «due persone in un unico artista» o, come si definiscono in questa intervista a «la Lettura», in occasione della mostra veneziana della Collezione Pinault a Punta della Dogana (Dancing with myself) dove fino al 16 dicembre sono ospitati tre loro lavori, «due ragazzi di campagna, due figli della guerra che dovevano avere per forza successo e che l’hanno trovato nell’arte, quell’arte che è stata la nostra unica possibilità». Prousch arriva a Londra dalle Dolomiti, da San Martino in Badia, passando per Vienna e la Germania: di quelle radici è rimasto un buffo accento italo-tedesco. Passmore arriva, a sua volta, da Totnes, nel Devon, via Oxford: da qui deriva il suo accentooxbridge (Oxford + Cambridge).
Dal loro incontro alla Saint Martin School of Art a Londra, nell’ormai lontano 1967, G&G vivono e lavorano insieme in una sorta di performance senza fine che a volte può assomigliare alle scenette di Macario: anche perché i protagonisti sono oggi due signori con tanto di pancetta e stempiatura (ma d’altra parte: il glamour fisico non è mai stato uno dei loro punti di forza). E che altre volte sembra uscita fuori dalle pagine della Swimming pool library di Allan Hollinghurst, altre volte dalle strofe di Smalltown boy dei Bronski Beat ovvero da due capisaldi della cultura gay degli Anni Ottanta-Novanta.
«La nostra arte nasce da quello che vediamo uscendo dalla porta di casa», racconta Gilbert vestito con un completo di tweed verdastro mentre il suo socio ne indossa uno uguale ma sui toni dell’arancio cuciti non da un classico sarto di Savile Row ma da un loro «amico indiano» della molto più etnica e popolare Brick Lane. «Non la chiamerei ispirazione – prosegue Gilbert —: noi raccontiamo semplicemente la vita dei giovani, delle prostitute, degli alberi e delle foglie che cadono; non siamo altro che strane creature che parlano di sesso, di religione, di alcool e di quello che incontrano uscendo per strada, pensando a Charles Dickens e alla sua capacità di entrare nel cervello e nel cuore della gente». Un mondo metropolitano che, aggiunge George nell’ennesima sovrapposizione vocale dell’intervista, «non è più lo stesso degli anni Settanta, ma è appunto questo cambiamento che dobbiamo raccontare, perché se c’è un problema nel mondo dell’arte è che è autoreferenziale, non sa parlare della gente, del vivere quotidiano. La nostra è un’arte per tutti».
Come esempio di questo «bad feeling» dell’arte contemporanea G&G citano una delle loro prime mostre, in una galleria di Berlino, ancora negli anni Settanta: «Il giorno dopo l’inaugurazione siamo tornati e abbiamo trovato il gallerista seduto alla sua scrivania con aria disperata. Gli abbiamo chiesto: sono i postumi dell’ubriacatura? No, ci ha risposto, sono solo molto preoccupato: il vostro lavoro è piaciuto anche alla donna delle pulizie e questo non va bene, è un peccato, vuol dire che non piacerà a nessuno». Qui sta lo sbaglio: «L’arte non deve essere per pochi e deve raccontare a tutti la vita di tutti, compresi temi difficili come l’emarginazione, l’omosessualità, la violenza urbana, l’Aids, il razzismo». Per questo, «per rendere al quartiere dove viviamo quello che ci ha dato in tutti questi anni in termini di ispirazione», G&G stanno da tempo pensando a una Fondazione d’arte contemporanea in un ex-birrificio su Heneage Street.
Lo sguardo di Gilbert&George (che avevano fatto a suo tempo scandalo sostenendo Margaret Thatcher) è sempre disincantato: «L’offerta artistica è molto cresciuta, chiunque ormai può trascorrere la giornata passando da una galleria all’altra, ma questo non vuol dire che sia migliorata. Noi abbiamo fatto una scelta tanto tempo fa, nel 1969, di non andare più alle mostre e nemmeno al cinema, al museo, ai concerti; insomma di non guardare più al lavoro degli altri artisti, di tenerci lontani». Per questo, precisa George, «dicono che siamo terribili, due marmocchi viziati». Ma non andate neppure alle vostre mostre? «È una cosa diversa: le mostre di un solo artista sono le uniche che riescono a raccontare in modo preciso la sua poetica, ma ci devono essere almeno cinquanta-settanta quadri, altrimenti sono inutili». E le collettive? «Non le amiamo proprio, anche perché di solito, i nostri lavori finiscono sempre vicino alla toilet delle signore».
Giocando con humour e narcisismo tra body art e fotomontaggi ispirati alle antiche vetrate medievali, dove la parola è sempre al centro (dai termini più scurrili come l’uso spregiudicato di fuck durante la conversazione a quelli tecnico-scientifici-gergali che identificano liquidi corporali) G&G sono diventati un fenomeno globale riconoscibilissimo. Perché questo entusiasmo per la parola? «Abbiamo sempre dato un titolo alle nostre opere perché sarebbe assurdo che non lo avessero, nessuno leggerebbe un libro senza titolo e anche perché le parole registrano meglio le mutazioni della nostra società». A proposito di parole, G&G citano un’altra scenetta: «Abbiamo appena incontrato in una calle una signora anziana molto molto elegante, ci ha riconosciuti e ci ha apostrofato con un sonoro fuck you. Non è fantastico?».
Da quel lontano colpo di fulmine (leggenda vuole che a colpirli sia stata la reciproca «diversità» e che sia stato George a prendere l’iniziativa) è dunque nata una delle più singolari avventure artistiche del XX e del XXI secolo che da sempre solletica il voyeurismo collettivo e che ha saputo elevare ogni momento della loro esistenza al rango di performance artistica facendo coesistere l’infinitamente grande e l’infinitamente piccolo, il sublime e il banale, senza una gerarchia e seguendo combinazioni complesse, pensando alle loro opere come a grandi poemi visuali che decifrano, non senza umorismo, la condizione umana.
«Non amiamo l’arte classica – precisa George e Gilbert conferma in sottofondo – perché è solo arte di propaganda voluta dalla Chiesa e dal Papa, con tutti quei quadri di cavalli, bambini, aristocratici e inutili angeli che cadono e che si è sempre dimenticata del mondo vero». Ma una soluzione ci sarebbe: «I musei e le gallerie dovrebbero separare l’arte religiosa da tutte le altre arti; i direttori delle Gallerie nazionali, a Londra come a Washington, dovrebbero creare dipartimenti di arte religiosa come già esistono quelli di sport, di caccia e di pesca». Come mai questa avversione verso la Chiesa? «Per tutto quello di terribile che è stato fatto, anche di recente, nel nome di Dio; per le persone che sono state torturate e uccise nel nome di Dio, senza che la Chiesa o il Papa abbiano chiesto scusa». Non vi spaventa vivere nel peccato? «No, sono più di cinquant’anni che non commettiamo altro che peccati mortali».