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 2018  ottobre 21 Domenica calendario

Intervista a Lina Wertmüller

Lina Wertmüller è nata nel 1928, ha visto finire un secolo e iniziarne un altro, ha visto morire l’amore della sua vita, ha girato più di trenta film e ormai non ne può più di rispondere alle interviste. Prima, m’interroga. Ha letto la mia autobiografia? Sì. Ha visto il documentario su di me? Sì. A me viene in mente di quando le femministe la fecero ministro della Condizione femminile. Durò niente. Alla prima riunione, lei chiese chi aveva visto il suo Questa volta parliamo di uomini. Non l’aveva visto nessuno e lei se ne andò («Ma come? Una donna fa un film sugli uomini e le femministe non vanno a vederlo?»). Se non finisce così anche stavolta, con lei che mette giù il telefono e tanti saluti, è perché a «ogni domanda del cavolo» mi rimanda alla biografia. Io dimostro d’averla letta, lei si placa e va avanti. È una piccola tirannia che può permettersi. Il 14 agosto, per i suoi 90 anni, l’ha chiamata per gli auguri il presidente Sergio Mattarella. Nel documentario sulla sua vita, Dietro gli occhiali bianchi, firmato da Valerio Ruiz, Harvey Keitel ha detto che vederla lavorare è una gioia, Martin Scorsese che i suoi film sono come il carnevale. Henry Miller, in una lettera alla sua ultima amante, scrisse che, vedendo Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare d’agosto, aveva pensato che Hollywood non si sarebbe mai concessa tutta quella libertà. A un Golden Globe (ne ha vinti due, uno nel ’75, uno nel 2009 alla carriera), Robert Altman si alzò, fece tacere tutti, le s’inginocchiò davanti e le baciò i piedi. Ora, nella sua casa di Roma affacciata su Piazza del Popolo, Lina ne ride. Dice: «La verità è che ho dei piedi bellissimi». 
Nel 1977, il suo «Pasqualino Settebellezze» ebbe quattro nomination agli Oscar, un record per una regista donna. Come si sentiva?
«Bah, che domanda del cavolo è? Era bello, pieno di attori, registi... Sulla poltrona a me assegnata, feci sedere la mia amica Lalla Kezich. Quando m’inquadravano, il mondo vedeva lei. Ci fu chi disse che l’Oscar non me lo diedero per quella beffa, ma non credo. Per l’Oscar devi organizzare centinaia di proiezioni. Noi eravamo un gruppetto avventuroso e ignaro di queste dinamiche».
Avventurosa era stata anche la caccia alla protagonista da affiancare a Giancarlo Giannini.
«Se la ricorda Shirley Stoler? L’ha letta la biografia? Era un’enorme Cenerentola che avevo visto in un piccolo film e che nessuno sapeva più dove trovare, partii per New York e mi misi a battere i teatrini di Broadway. Quando la scovai e le offrii la parte non voleva credere alle sue orecchie. Dopo le nomination, i produttori m’invitavano nelle ville di Hollywood, ma non si concludeva mai niente. Forse, ci mettevo del mio: una volta, feci schizzare una patata al cartoccio sulla faccia del più potente azionista della Universal Pictures. Mi disse “ottima mira, baby” e non lo sentii più».
Si è pentita di aver rifiutato un milione di dollari dagli inglesi di Penthouse per girare «Caligola»? 
«Volevo un Caligola mio, non scritto da Gore Vidal. Allora, il produttore mi offrì due milioni per dirigere Caterina di tutte le Russie e di nuovo dissi no. Dopo, avevo le lacrime agli occhi. Mi sentivo eroica, però mi rendevo conto di essere anche un’imbecille. Avevo rifiutato un fiume di soldi in nome dell’integrità artistica. Ma non mi sono pentita». 
«I basilischi», il suo primo film, lo aveva fatto con niente. 
«L’intera troupe di Federico Fellini, del quale ero stata aiuto regista ne La Dolce Vita e in 8½, venne come me in Basilicata solo per la mia simpatia. Alcuni erano gli stessi che al mio primo apparire sul set accanto a Federico s’erano dati di gomito: “Ao’, c’avemo l’aiuto regista col visone”. Ero donna, giovane, di buona famiglia, ma il visone era un visone modesto».
Come li conquistò?
«Se si è seri, è più facile farsi prendere sul serio. Certo, ci vuole carattere».
Mi faccia un esempio di «carattere».
«Mi chiamarono a salvare un film western in Jugoslavia. Accetto, usando uno pseudonimo maschile. Vado e trovo il disastro. Mi si presenta l’organizzatore, vestito da cowboy, perché desiderava fare la comparsa. Per risposta, gli tiro un cazzotto sul naso. Poi, arriva il protagonista, un americano, e mi chiede di non fare a Elsa Martinelli più primi piani che a lui. Gli rispondo che fingo di non aver sentito. Il giorno dopo, giravo Elsa che fa il bagno in un lago e vengono a dirmi che lui stava lasciando il set perché mi occupavo troppo di Elsa. Misi di spalle una controfigura col costume dell’americano e la feci pugnalare alla schiena, in una scena creata lì per lì. Fine dell’americano. Gli feci dire che per me era morto e cambiai protagonista». 
Perché diede un morso a Luciano De Crescenzo?
«Sul set di Sabato, domenica e lunedì, nelle scene a tavola, sottolineava le battute col dito alzato. Gli dissi di smetterla. Una volta, due. La terza, mi avventai sul suo indice e gli diedi un “mozzico”».
A Monica Vitti distrusse un vestito. 
«Eravamo a Parigi, in teatro. Tutti dovevano recitare in tuta, lei non voleva. Scoprii che le era arrivato un abito di voile azzurro e che lei aveva tagliuzzato la tuta. Allora, tagliuzzai l’abito, feci rammendare la tuta e le dissi “Mettiti questa, Ceciarelli, sennò ti spacco la faccia”. Ceciarelli era il suo vero cognome». 
Dopo, nei suoi film, Vitti non c’è mai. Fu Monica a dirle no o lei a non volerla?
«Forse siamo state tutte e due».
Invece Mariangela Melato raccontava che fu lei a imporla quando nessuno la voleva.
«Il direttore della fotografia di Mimì metallurgico ferito nell’onore continuava a dirmi “non c’ha zigomi, non è fotogenica”. Ma se una faccia mi piace, io galoppo il cavallo. Quello fu il primo di una serie di film di lei in coppia con Giancarlo Giannini. Insieme erano formidabili. Con Travolti da un insolito destino… sono diventati sex symbol mondiali».
Davvero non ha visto il remake di quel film fatto da Madonna e Guy Ritchie?
«Poi forse l’ho visto, ma del passato non m’importa tanto».
Nella sua autobiografia del 2012, «Tutto a posto e niente in ordine», scrive che ha sempre vissuto sul «sunny side of the street». Cos’è questo lato assolato della strada?
«Ho una natura allegra. Quando I basilischi vinsero il Festival di Locarno e premi in tutto il mondo dicevano che era nata una regista impegnata. L’etichetta mi annoiava, per questo volli fare Il giornalino di Giamburrasca per la tv, con Rita Pavone». 
Anche lei era stata una Giamburrasca.
«Sono stata cacciata da undici scuole. La volta più clamorosa fu quando all’asilo venne “la vigilatrice” a esaminarci. Avevo chiesto di uscire per fare la pupù, non mi avevano dato il permesso. Ripetei la richiesta, niente. Al che, mi calai le mutandine e la feci davanti alla vigilatrice». 
La folgorazione per il cinema come arriva?
«E chi se lo ricorda più… Con la mia migliore amica Flora Carabella, che sposerà Marcello Mastroianni, recitavamo poesie sul terrazzo. A 16 anni, andai a studiare il metodo Stanislavskij. Poi, gli interessi si espandono e pensai di fare la regista. Passai sette anni divertentissimi con Garinei e Giovannini. Ricordo Wanda Osiris che inciampa e cade di testa nella grancassa».
Come riuscì a farsi prendere da Fellini?
«E che ne so. Gli sarò sembrata intelligente».
Per 40 anni è stata sposata a Enrico Job, mancato dieci anni fa. Artista, scrittore, scenografo. Che amore è stato?
«È stato l’incontro più importante della mia vita. Preparavo i costumi di Questa volta parliamo di uomini, vidi un disegno bellissimo, mi dissero che era suo, che era un vero talento. E io, cretina: “Se non lo conosco, non è nessuno”. Invece, me lo presentarono ed era bellissimo, coltissimo, spiritoso. La sera stessa già saltellavo e dicevo: “È lui!”. Ci conoscemmo nel ’65, ci sposammo nel ’67 e ci siamo amati sempre». 
Come si sopravvive a un amore così grande?
«Male». 
Nel 1991, lei 62enne, siete diventati genitori di Maria Zulima. Si fecero tutte le ipotesi: adozione, utero in affitto… Qual è la verità?
«Sono tutte sciocchezze. Maria è la figlia di Job e quindi è mia figlia». 
Lui disse che era nata da una relazione extraconiugale e che lei l’aveva accolta come sua.
«È nata dal nostro amore. La vita è imprevedibile. Diventare genitori è stato bellissimo. Maucì, così la chiamiamo, è stata ed è amata tanto. È apparsa in tutti i nostri film. La bimba che gattona in Io speriamo che me la cavo è lei. Però, crescendo, recitare non le è interessato». 
C’è qualcosa a cui lei ancora lavora?
«Sì, ma non mi va di raccontarlo. E non mi chieda del futuro. Quando guardo davanti mi dico solo: boh».