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 2018  ottobre 17 Mercoledì calendario

Biografia di Giovanni Tria

Circondato dai cacciatori e dai raccoglitori di frutta, l’Homo Sapiens dedito all’agricoltura, viveva in costante pericolo. Non aveva muscoli scattanti, non era mai abbastanza aggressivo. Ma era ostinato. E cereale dopo cereale, l’ebbe vinta lui. Allo stesso modo – al netto del permanente sorriso con cui ci rassicura dall’accampamento fortificato del suo Ministero di Economia a Finanza – Giovanni Tria sopravvive da cento e fischia giorni circondato dalla doppia tribù dei Salvimaio. Non si sa come. Non si sa per quanto. Ma al momento sbuccia ancora il frumento, firma il bilancio di previsione 2019, e resiste. Durerà?
Giovanni Tria, classe 1948, preside della facoltà di Economia, Università di Tor Vergata, non è una mammola e non è uno sprovveduto. È romano di Roma: per memoria ancestrale sa da un paio di millenni come si trattano i barbari, che infine conquistarono il cuore dell’impero, per poi esserne conquistati. Delle sue molte abilità, la più utile, oltre al buon carattere, è stato l’insegnamento di Edmund Phelps, economista premio Nobel 2006, che studiava “gli effetti a breve e a lungo termine delle politiche economiche”. Corsi che ha frequentato (per davvero) nelle aule di perfezionamento della Columbia University, New York, primi anni Ottanta, insieme con il suo amico e collega Ernesto Felli, addestrandosi alla pazienza. Dunque un keynesiano più incline alle detrazioni fiscali, agli investimenti pubblici, all’etica del lavoro. E meno propenso alla fretta dei condoni, all’assistenzialismo, alle indiscipline nei confronti delle serrature di Bruxelles che custodiscono il bene più prezioso della nostra pace europea, l’euro. Ma anche tanto realista da assecondare tutto il contrario, non escludere temporanee forzature, quando necessarie, persuaso che al fondo di ogni opinione ci sia sempre lo spazio per il dubbio che la contraddice o persino la vanifica. Pertanto un perfetto moderato italiano d’alta classe intellettuale che nel corso degli anni ha saputo convivere con il bianco e il nero, il dritto e il rovescio. Con le intemperanze del suo amico Renatino Brunetta, di cui fu consulente, durante i fasti del berlusconismo tanto arrembante da condurci fino all’orlo del baratro. Poi con le commoventi imperizie di Marianna Madia, creatura d’acquario veltroniano, che da ministro della Pubblica amministrazione, si definiva orgogliosa di “portare in dote la mia straordinaria inesperienza”. Infine oggi, diventato ministro di un governo, dove Matteo Salvini ha lo sguardo di una ruspa e il guaglione Gigi Di Maio dichiara da un balcone di avere appena abolito la povertà, saluta la “prima manovra del popolo” e detta con spericolata fierezza il suo migliore nonsense: “Tra i numerini dello spread e gli italiani, io sto con gli italiani!”.
Tria sa far finta di non ascoltare. Naviga a suo agio tra i sofismi da convegno tipo: “È sbagliato rispondere sì, ma credo non basti rispondere no”. Ammette le imperfezioni dell’Economia, scienza esatta solo a consuntivo. Salvo attestarsi senza titubanze – e meno male – in cima all’alto recinto della Costituzione: “Ho giurato nell’esclusivo interesse della Nazione e non di altri”, ha scandito lo scorso 26 settembre davanti alla platea di Confcommercio, in piena battaglia tra Lega e Cinque Stelle sui conti e sugli azzardi pubblici dello zero virgola. E per essere più chiaro alle orecchie dei cacciatori e dei raccoglitori di governo, ha aggiunto: “E non ho giurato solo io, ma anche gli altri”. Dunque: datevi una calmata, perché “non c’è crescita nell’instabilità finanziaria”. Chiaro? Chiarissimo. Durerà?
Come molti pompieri anche Giovanni Tria è nato incendiario. Figlio di un dirigente di Confindustria e di una pacata professoressa di francese, ha scelto il controcanto. Ai tempi del liceo romano Virgilio militava niente meno che tra i maoisti di Stella Rossa. Albeggiava il ’68. Le guardie rosse irrigavano la bella Rivoluzione culturale, anche se ancora non si sapeva con quanto sangue. Del resto i maoisti d’Italia abitavano per lo più ai Parioli, passavano le estati in Grecia e si preparavano, dopo gli allenamenti, a sostituire i genitori tra le fila della classe dirigente.
Tria studia e viaggia. All’inizio persino su una motocicletta Bmw, come gli hipster di Nel corso del tempo, capolavoro romantico di Wim Wenders. Un po’ di Oriente, le isole greche, la Turchia. Traversate che ancora oggi sono i migliori ricordi a cui appendere un po’ di malinconia. Dopo la moto, la laurea in Giurisprudenza alla Sapienza, la carriera accademica in Italia, in America, persino in Cina dove stava per nascere il liberismo-comunismo di Stato. Da lì in poi, due mogli, due figli, le vacanze in gommone a Patmos. E sul lavoro molto prestigio, molti incarichi, compresa la presidenza della Scuola nazionale dell’amministrazione.
Senza essere mai stato socialista, tantomeno craxiano, entra nel comitato scientifico della Fondazione intitolata a Bettino Craxi, uno dei politici più svelti a moltiplicare il debito pubblico italiano. E senza mai essere stato di Forza Italia, tantomeno berlusconiano, collabora al programma economico del nascente partito di Silvio B, quello che prometteva “il diritto naturale” a una sola aliquota massima del 33 per cento, oltre, al celebre milione di posti di lavoro.
Tria è amico di molti, anche se non di tutti. Ha lavorato con Maurizio Sacconi e con Giorgio La Malfa. Ha scritto a lungo per Il Foglio. Considera Gianni De Michelis – conosciuto dopo la caduta di Tangentopoli – uno dei “politici più intelligenti” della nostra storia recente. Europeista convinto, ha criticato la Germania per il suo “strapotere economico”. E su quelle righe si è conquistato l’amicizia e la stima di Paolo Savona, il quasi sovranista che ha evocato il cigno nero dell’uscita dall’euro, evento che ancora naviga nella nostra opaca palude.
È stato proprio lui – come rivelato a Repubblica – a chiamarlo al telefono una sera di maggio: il presidente Mattarella non mi vuole all’Economia, “andresti tu al mio posto?”. E siccome era sbagliato rispondere sì, ma neppure era possibile rispondere no, Tria nicchia, ci pensa, poi accetta di salire in giostra.
Nei primi giorni di governo, allo scossone di cittadinanza replica: “Improbabile che si possa configurare una società in cui una parte della popolazione produce e l’altra consuma”. Mentre al carosello della flat tax, oppone il freno della moderazione: “Meglio partire lenti per minimizzare la perdita di gettito, e ridurre le aliquote una volta assicurati gli effetti sulla crescita”. Due quasi no, per iniziare le danze, governando il sì. Dandosi tutto il tempo di aggiustare il passo, come un danzatore provetto. Anche se non è vero, come in molti hanno scritto, che Tria sarebbe stato un buon ballerino di Tango, “ci ho provato, ma inutilmente”.
Rotte di collisione e stonature ci sono state, aggiustate da Mattarella e persino da Giuseppe Conte, che per carattere e silenzi gli assomiglia. La più perigliosa agli sgoccioli del Def, il documento che prepara il bilancio, quando l’incauto Claudio Borghi – il leghista che con un paio di parole ha fatto crollare l’euro – gli ha spento il microfono in pubblico, e si sono temute le sue dimissioni. Evento che avrebbe fatto esplodere i mercati, dicono, privandoci di molti euro vantaggi, compresa la strepitosa imitazione settimanale di Maurizio Crozza, dove il nostro Homo Sapiens, circondato dai cacciatori e raccoglitori di governo, esibisce su un foglio, la muta implorazione: “Aiuto!”. Ma al prossimo giro potrebbe anche cambiarla in una domanda più perentoria: “Durerò?”