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 2018  ottobre 13 Sabato calendario

Il condannato a morte che non ricorda di avere ucciso

Aspetta la visita della madre, senza ricordare che è morta molti anni fa. Si lamenta per la mancanza del bagno, senza sapere che ce l’ha in cella. Parla a fatica, ci vede poco, è incontinente, non è più in grado di camminare. 
Eppure non c’è motivo di simpatizzare per Vernon Madison, 68 anni, uno dei 5 milioni di americani che soffrono di Alzheimer o di altre forme di demenza. Da 33 anni Madison è nel braccio della morte in un carcere dell’Alabama, per un crimine che non ha mai riconosciuto. Nell’aprile 1985 uccise con due colpi di pistola l’agente Julius Schulte, dopo un litigio nel corso del quale la sua compagna aveva chiamato la polizia. L’uomo ferì la donna, che proteggeva con il proprio corpo la loro figlia undicenne. Anche volendo, per quel Vernon Madison non si potrebbe provare simpatia, perché l’uomo stranito che aspetta la madre nel braccio della morte non è più lui. È uno che ha smarrito la sua identità, a causa della demenza vascolare insorta dopo due ictus (nel 2015 e nel 2016). Una persona che ha perso la cognizione del passato, compreso il motivo per cui si trova in carcere, può essere messa a morte in base alla Costituzione americana? 
È quanto dovrà stabilire in via definitiva la Corte Suprema, che pochi giorni fa ha ascoltato le parti. Lo Stato dell’Alabama ritiene che la demenza di Madison non sia motivo sufficiente per risparmiare a lui il boia, e alla società la lezione su che cosa accade a chi uccide. I suoi avvocati invocano l’Ottavo Emendamento, che vieta «il ricorso a pene crudeli e inusitate». L’anno prossimo i giudici annunceranno la decisione su una vicenda già passata una volta sotto i loro occhi.
Il 25 gennaio 2018, mezz’ora prima dell’iniezione letale, un tribunale dell’Alabama bloccò l’esecuzione di Madison. Lo Stato fece appello e la questione finì davanti alla Corte Suprema, che nel 2007 aveva stabilito che gli imputati non possono essere giustiziati se non sono in grado di comprenderne il motivo. Ma, nel caso di Madison, i giudici si schierarono in prima istanza contro la sospensione dell’esecuzione, basandosi su una sottile distinzione: c’è differenza tra chi non ricorda il crimine commesso e chi non è in grado di comprendere i concetti di delitto e pena. In occasione della sentenza, però, i tre magistrati più liberal — Ruth Bader Ginsburg, Stephen Breyer e Sonia Sotomayor – si dissero pronti ad approfondire in futuro la questione del degrado cognitivo del condannato.
Il futuro è arrivato veloce, in concomitanza con l’aggiunta del nono giudice, Brett Kavanaugh, fresco di tortuosa nomina. Il collega Breyer in una nota ha sottolineato il tema dell’invecchiamento dei detenuti. Nel 1987 la detenzione prima dell’esecuzione era in media di 7 anni; oggi di 19. I condannati invecchiano, cambiano. E poiché l’età è un fattore di rischio, ci si può aspettare che Alzheimer e affini siano in aumento anche fra le celle del «miglio verde». 
Vernon Madison probabilmente non sa nulla di tutto questo. All’ultimo check-up, un perito ha confermato la demenza vascolare. La perdita di memoria di chi soffre per patologie simili non è legata a una forma di amnesia, quanto a un degrado cognitivo che coinvolge progressivamente le capacità di ragionamento, la coscienza di sé. L’assassino dell’agente Schulte al primo processo nel 1985 si difese dicendo di essere malato di mente e al secondo, qualche anno più tardi, parlò di legittima difesa. Un essere abominevole, sfuggito alla pena che qualcuno oggi gli vorrebbe affibbiare. Perché purtroppo o per fortuna l’uomo che ogni mattina si sveglia nel braccio della morte aspettando la visita della madre, anche se conserva il suo nome, non è più Vernon Madison.