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 2018  ottobre 13 Sabato calendario

Andare per stadi

Gli stadi sono le case dove abitano le partite di pallone, ma sono anche i templi dove le persone che quelle partite seguono/ vivono/ guardano si recano per una cerimonia collettiva, religiosa e laica insieme, nobile e a volte trucida, appassionata e non di rado cruenta. Raccontare la storia di questi edifici è come segnare col dito e toccare con mano quella del Paese intero, piccola storia sociale e culturale, segno dei tempi, termometro economico e insieme emotivo. Ed è questo, in fondo, il senso di un libro scritto da Pierluigi Allotti per il Mulino, con l’idea del viaggio già nel titolo: Andare per stadi. Ed è davvero una sorta di girovagare nelle epoche e nelle geografie d’Italia, andare per stadi come si andrebbe per mare o per ristoranti, ma anche per musei o per funghi. Andare, insomma, dove c’è una traccia da seguire, e alla fine ascoltare quella traccia perché sta parlando di noi.
Noi come siamo e com’eravamo, questo dicono i mastodonti di legno e cemento, oggi di teflon e acciaio e cristalli come cattedrali. Il viaggio di Allotti, curiosamente ma non casualmente, comincia e finisce a Torino, da due impianti sportivi con identico nome – Stadium, latino classico, del resto Torino è pur sempre la città della Juventus – e con una cesura netta, un secolo preciso: 1911, quando cioè venne inaugurato lo Stadium immenso, nei pressi di piazza d’Armi, non lontano da dove poi sarebbe sorto lo stadio Mussolini (in seguito Comunale, Olimpico e Olimpico Grande Torino: vedete, anche gli stadi in Italia cambiano il nome pensando che così cambi anche l’oggetto, la cosa in sé) e 2011, quando sorse l’altro Stadium, quello di proprietà bianconera, privato come un resort e non meno esclusivo (provate voi a procurarvi uno dei preziosissimi 40 mila biglietti). Cent’anni di staditudine, con la conferma che a ogni stadio corrisponde un’epoca, un messaggio, una forma di potere e di consenso e non di rado un errore, uno spreco di denaro o di occasioni.
La storia d’Italia passa tra le gradinate, cade e rimbalza come luce sul cemento delle curve, come le voci e i cori del pubblico, agitandosi con le bandiere al vento. Ed è un recupero di tempi davvero perduti, una recherche che parte dall’Esposizione Universale di Torino 1911, quando nacque addirittura un’idea olimpica sabauda mai realizzata. Lo Stadium costò un milione di lire, cifra spaventosa allora, e ora non ne rimane neppure il ricordo.
L’autore del saggio ha scelto un giorno per ogni stadio, una partita che narri una stagione italiana. Quella dello Stadium fu Italia- Francia 2- 0, gara amichevole di fronte a ottantamila spettatori, l’anno era già il 1914. Il viaggio prosegue a Marassi, cioè a Genova, dove il Genoa perde contro la Pro Vercelli il tricolore il 14 maggio 1922 e sulle alture attorno allo stadio non pochi” portoghesi” si recano per guardare senza pagare. Ma già si profila all’orizzonte il fascismo, ecco l’inaugurazione dello stadio Littoriale a Bologna, 31 ottobre 1926, “il tempio nuovo della razza”, prima pietra posata dal re Vittorio Emanuele III, nastro idealmente tagliato da Benito Mussolini addirittura a cavallo: oggi se ne può sorridere ma con cautela, già si profilano nuovi buffoni in sella all’effimero potere delle masse.La storia degli stadi è fatta di luoghi conficcati nel profondo del cuore delle città, come il romano Testaccio dove il 15 marzo 1931 la Juventus venne umiliata dalla Roma con un 5-0 che chissà come l’avrebbe commentato Totti. Oppure, sempre a Roma, lo stadio del Partito Nazionale Fascista che era a ferro di cavallo sulla Flaminia, non lontano da Piazza del Popolo, e ospitò la finale della Coppa del mondo 1934 che gli azzurri di Vittorio Pozzo vinsero battendo la Cecoslovacchia, un trionfo propagandistico a braccio teso. Non ne resta neppure una pietruzza.
Tutto dura un giorno e già siamo al 1948, il luogo è il Filadelfia, teatro del Grande Torino che il 2 maggio distrugge l’Alessandria (10- 0!) poco dopo le prime elezioni repubblicane vinte dalla Dc. Un anno più tardi, tutti i campioni granata moriranno a Superga. Cambiano i tempi, passano le mode, l’Italia è in pieno boom economico e costruisce il milanese San Siro, lo immagina addirittura da 150 mila posti, poi saranno 90 mila ed è lì che Herrera e Rocco si sfidano nel loro primo derby, nerazzurri favoriti ma sono i rossoneri a vincere (3-1) contro ogni pronostico, è il primo ottobre 1961, non c’è italiano che non giochi la schedina o non compri la lavatrice a rate. In quella domenica, un solo 13 al Totocalcio: lo realizza un ferroviere siciliano, Marano Giuseppe di anni 43 e figli 5. Spende 100 lire per la schedina e si porta a casa 156 milioni di lire.
Scorrono i giorni nel tempo inquieto dello stadio, ruggisce la folla e Gigi Riva vince lo scudetto a Cagliari, dove il vecchio stadio Amsicora lascia spazio al Sant’Elia che all’inizio (è il 1970) non ha quasi strade d’accesso ma si raggiunge attraverso passerelle sopra un canalone. Giorni di gioia e lutto, come quando un razzo sparato all’Olimpico di Roma da una curva all’altra in un derby (che si giocherà lo stesso) uccide il povero Vincenzo Paparelli, è il 28 ottobre 1979. Appena un anno più tardi, negli stadi saranno addirittura arrestati i calciatori del Totonero. Scandali, prime feroci violenze ultrà e polemiche mai finite, come il gol annullato al romanista Turone contro la Juventus il 10 maggio 1981. Entro pochi anni, nel 1986, Silvio Berlusconi comprerà il Milan e scatenerà un altro tempo, un nuovo stile di gioco (il pressing all’olandese di Sacchi) e il solito modo di trovare consenso usando lo sport. Perché siamo un Paese capace e incapace di tutto, anche di organizzare il mondiale 1990 delle notti magiche e poi far sfiorire i suoi stadi, compreso quello che a Bari innalzò in cielo Renzo Piano come una corolla: oggi cade a pezzi.