la Repubblica, 13 ottobre 2018
Il gioco delle copie, quando l’imitazione rafforza l’arte
Due anni fa, a Città del Messico, è stata inaugurata una replica esatta della Cappella Sistina. Un successo travolgente, a prescindere dal fatto che si trattasse solo di un’imitazione: di sicuro nessuno dei milioni di visitatori che l’hanno vista ha pensato di trovarsi in quella vera, eppure l’entusiasmo non è stato meno sincero. Il fatto è che anche le copie influiscono su gusto e sentimenti del pubblico, e possono essere un linguaggio valido tanto quanto quello da cui derivano. Su questo assunto, e sulla riflessione attorno al loro valore nella società contemporanea, è imperniata la mostra inaugurata lo scorso mercoledì allo Yuz Museum di Shanghai, concepita e curata da due delle menti creative che meglio incarnano il concetto: Alessandro Michele, direttore creativo di Gucci (l’azienda ha finanziato la mostra che chiude il 16 dicembre), che ha avuto l’idea e ha coinvolto come curatore Maurizio Cattelan. Insieme hanno immaginato The artist is present, dove titolo e locandina citano la performance del 2010 di Marina Abramovic al Moma. Qui però, nel manifesto fake, è un uomo, Ronan Gallagher, a imitare assai bene l’artista serba. I due sono pesi massimi della manipolazione della realtà, si diceva: se c’è qualcuno in grado di ridefinire il ruolo della copia contemporanea, sono loro. A cominciare dallo spiegare perché, oggi più che mai, l’essere originali è assurto a valore assoluto, a prescindere dal risultato.
«Credo che alla base di quest’ossessione ci sia il calo continuo delle risorse nel mondo del lavoro, mentre la necessità dell’affermazione di sé e dell’auto- rappresentazione è sempre più pressante. Se produco qualcosa, questa dev’essere mia per poterne trarre il massimo profitto», spiega via mail l’artista. «È un dibattito legato al secolo scorso: prima copiare era una dichiarazione di puro amore. Abbiamo abbandonato questa visione a favore di una in cui proprietà e copyright sono la caratteristica essenziale della società capitalista, e in cui la riproduzione è solo una tecnica per la conservazione. Ma sta cambiando: puoi sentirlo ogni volta che con il pollice clicchi sull’icona di condivisione di un social media. Questo è il punto di partenza della mostra». In effetti, in epoca classica il problema delle repliche neanche si poneva (non a caso al tema era dedicata Serial Classic, mostra inaugurale della Fondazione Prada di Milano): la questione è posteriore, e si è andata a ingigantire col tempo. «Penso che tutto nasca da un’insicurezza insita nel nostro mondo», riflette Alessandro Michele. «Oggi c’è l’urgenza dell’unicità, ma il problema non è come si copia, ma l’autenticità del gesto. Dire che una cosa è “copiata” non vuol dire niente, tutto dipende dal perché lo si fa e dal come. È ovvio che io prenda dal passato, e ci mancherebbe altro: non si va avanti facendo tabula rasa di ciò che è stato. Almeno però certe discussioni hanno aperto il dibattito, e il tema finalmente non è più un tabù».
E nella mostra di copie si parla, in ogni senso del termine. A partire dal luogo scelto, la Cina, dove notoriamente la riproduzione è un momento vitale. «Mi sembrava un gesto di sincerità», prosegue lui, «visto l’argomento. È come se mi mettessi in testa di fare il pornoattore e mi rivolgessi a Bertolucci invece che a un regista specializzato: serve coerenza in tutto». Chiarite le ragioni della luogo, si scende nel merito dell’allestimento: lo stilista ha lasciato carta bianca a Cattelan (e si vede), e quello che al di là delle riflessioni sul tema ne emerge è, a suo parere, una fedele riproduzione del suo processo creativo, fatto di collegamenti, fusioni e incastri continui. C’è la sua riproduzione della Cappella Sistina in scala 1 a 6 in una delle sale.; ma anche Jamian Juliano-Villani, che espone la copia di un suo quadro commissionata a un pittore cinese. C’è Mika Rottenberg, che con NoNose-Knows racconta la produzione massiccia di perle a Zhuji; e c’è chi la faccenda dell’imitazione l’ha presa alla lettera: Cloaca di Wim Delvoye è un macchinario che ricrea molto, molto fedelmente l’apparato digestivo umano, con espulsioni ogni 12 ore. A permeare il percorso espositivo è una “giocosità” che pare coinvolgere subito il pubblico: forse a causa del tema, e forse anche per come viene affrontato, non c’è la soggezione tipica dei musei. Altro segnale che le copie provocano una reazione: buona o cattiva che sia conta poco. Fatto sta che la gente non resta indifferente. Appurato che sia Cattelan che Alessandro Michele sono accumulatori, manipolatori e fieri di esserlo, viene da chiedersi come reagiscano di fronte a chi copia loro – cosa piuttosto frequente -. «Non me ne frega nulla, anch’io mi guardo continuamente attorno, quindi non ho problemi. Quello che m’avvilisce è chi, nella mia stessa posizione, preferisce sfruttare l’estetica di qualcun altro piuttosto che crearne una sua, più autentica. Il problema è la mancanza di un pensiero autonomo». «Se una mia idea esiste e viene considerata forte al punto da essere riproposta, non mi preoccupa», scrive Cattelan. «Il potere di un’immagine è dato dalla sua riproduzione mediatica: più è diffusa e più è potente. Anche se si tratta di una copia».