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Lawrence Osborne: «Non ci resta che espatriare tutti in Oriente»
Sarà proverbiale il "mal d’Africa", ma volete mettere con il "mal d’Oriente"? È dall’era coloniale che contagia noi occidentali attirandoci come una sirena, che si tratti di ashram, guru, massaggiatrici o fumerie d’oppio, e la globalizzazione, anziché curarlo, l’ha moltiplicato: «Corriamo tutti in Asia a cercare l’esotismo, per scoprire che è la nuova padrona della terra e che i nativi, invece di costumi etnici, vestono Armani». L’autore di questa battuta, il viaggiatore inglese Lawrence Osborne, ne sa qualcosa: romanziere, travel writer, giornalista, gira per il sud-est asiatico da trent’anni, lasciandosi alle spalle una scia di scritti memorabili e debiti di gioco non meno straordinari. La ballata di un piccolo giocatore, il suo nuovo libro, vagamente autobiografico, appena pubblicato da Adelphi, inizia in uno dei casinò di Macao «più vecchi, arcaici, malridotti, con il legno che puzza di fumo, il bar fornito di vino Grande Muraglia, i fregi con i centauri e le ragazze della reception con il cappellino a ciliegia». È l’uomo giusto per capire cosa resta dell’orientalismo nell’epoca di TripAdvisor.
Cominciamo da Macao. Cosa l’ha attirata in questa isola del vizio, al punto da decidere di ambientarci un romanzo?
«Mi ha attirato il vizio, naturalmente. Ma non solo.
Frequento Macao da molto tempo: avevo l’abitudine di andarci ogni mese per rinnovare il mio visto thailandese. L’ho vista cambiare nel corso del tempo ed è cambiata molto».
Era meglio prima che diventasse parte della Cina nel 1999?
«Tutte le città erano meglio, una volta, non è vero? Vale anche per New York e per Parigi».
Comunque continua a piacerle anche adesso.
«Resta un piccolo luogo misterioso, complicato e reticente, un’isola di barocco europeo immersa nei mari del sud della Cina. Confesso di averla sempre amata e di tornarci sempre volentieri. Non ci vado più per il gioco d’azzardo, però».
Il messaggio del suo romanzo è che perdere, al gioco e forse non solo al gioco, è più eccitante che vincere? Un proverbio cinese ammonisce: quando gli dei vogliono punirti, realizzano i tuoi desideri.
«È uno dei messaggi del libro. Per la precisione, perdere è quello che fa godere di più i giocatori d’azzardo.
Anche se non tutti se ne rendono conto».
Lei quando se ne è reso conto?
«Troppo tardi: quando ho smesso di giocare. Non di mia volontà: è stata la mia ragazza a convincermi. È triste ammetterlo, ma giocavo come un pazzo».
Ha letto "Il giocatore" di Dostoevskij?
«È uno dei miei romanzi preferiti.
L’ispirazione è venuta anche da lì, suppongo».
Il fascino che gli occidentali provano per l’Oriente è sopravvissuto alla globalizzazione?
«È perfino aumentato: il numero di quelli che ne sentono il richiamo cresce a dismisura. Forse perché non c’è un altro posto al mondo che sia altrettanto pericoloso ed esasperante. Va da sé che visitare l’Oriente e viverci sono due cose totalmente differenti».
Lei perché ci vive?
«Perché l’Oriente si adatta al mio temperamento. O viceversa. Mi piacciono le culture con buone maniere e bassa criminalità. A chi non piacerebbero, del resto?».
Chi sono i visitatori che si incontrano più spesso oggi in Estremo Oriente?
«I cinesi. Dominano completamente il turismo in Asia.
Immagino che, avanti di questo passo, lo domineranno ovunque: ma l’Asia per loro è vicina, dunque hanno iniziato da lì. Sono dappertutto e hanno trasformato il proprio continente in un manicomio. Pieno di soldi, s’intende».
Un amico italiano ha sposato un’indiana vestito in turbante e costume locale, poi ha aperto un sondaggio su Facebook per sapere se la sua scelta è nomadismo multiculturale o appropriazione coloniale. Lei che ne pensa?
«Penso che un occidentale, in Asia, fa meglio a vestirsi per quello che è: all’occidentale dunque. Il primo ministro canadese Trudeau si è coperto di ridicolo vestendosi all’indiana per il suo viaggio a Delhi. Solo il mio collega scrittore William Dalrymple riesce a vestirsi da orientale senza suscitare ilarità e lo stesso io sono perplesso su certi suoi abiti indiani. Fra parentesi, gli uomini più eleganti, in tutto l’Oriente, ora preferiscono indossare abiti italiani, non costumi etnici».
La nozione di "espatriato" occidentale è mutata rispetto agli anni di Bruce Chatwin?
«Preferisco il termine emigrante, per chi emigra davvero, non per chi fa il turista per caso. Comunque gran parte del mondo oggi è "espatriato". Il mio quartiere a Bangkok pullula di giapponesi. Che parlano thailandese peggio di me.
Benvenuti nella confusione del mondo del XXI secolo!».
Esiste ancora l’esotico nell’era di TripAdvisor?
«Non credo. Ma se qualcuno lo cerca, consiglio di andare a Papua: soffrirete, vi ammalerete, perderete 30 chili di peso e alla fine sarete felice di tornare alla Coca-Cola ghiacciata di Bali! Fidatevi. È capitato anche a me».
La Cina diventerà mai la "nuova India" per gli occidentali?
«No. Almeno finché rimane una superpotenza militar-imperialista vecchio stile con un alto grado di xenofobia, frontiere chiuse e zero libertà su Internet. Gli occidentali sopporteranno di visitare un Paese in cui non possono nemmeno inviare un email? Ciononostante, per me è la più affascinante di tutte le civiltà. Per cui, chissà».
Dopo tanto peregrinare per l’Asia, perché ha deciso di fermarsi a Bangkok?
«Perché è pazza, gentile, selvaggia, caotica, corrotta, serena, meticolosa, raffinata, sensuale, brutta e bella, tutto insieme. Come non adorarla?».
Cosa le piace della vecchia Europa?
«L’Italia. È l’unico Paese in cui vorrei vivere, se vivessi in Europa. Avrei dovuto nascere italiano per quanto mi piacciono il vostro cibo, il vostro vino, la vostra sartoria. Ho girato l’Italia in lungo e in largo all’inseguimento del risotto e della camicia perfetta. Quest’ultima l’ho trovata a Firenze e da allora non posso indossare nient’altro. È la mia seconda pelle. E rileggo Il gattopardo tutti gli anni. Nella vita si sale e si scende. È la natura umana».