TuttoLibri, 13 ottobre 2018
António Lobo Antunes: «I miei libri sono una malattia»
Tutte le volte che qualcuno dice di aver letto un mio libro me ne dispiaccio, dal momento che i miei libri non sono fatti per essere letti nel modo in cui si intende normalmente leggere: l’unico modo mi pare per affrontare i libri che scrivo è di prenderli un po’ come si prende una malattia. Di Bjorn Borg si diceva, paragonandolo ad altri tennisti, che mentre costoro giocavano a tennis lui giocava a qualcos’altro.
Quello che per comodità ho chiamato romanzi, ma che avrei potuto chiamare poesie, visioni, o quel che si vuole, verranno capiti solo se presi per altro. Il lettore deve rinunciare alla sua chiave, quella che tutti hanno a disposizione per aprire la vita propria e altrui, e utilizzare la chiave offerta dal testo. In caso contrario, il testo diventerà incomprensibile, dato che le parole sono soltanto tracce di sensazioni intime, e i personaggi, le situazioni e la trama, semplici pretesti di superficie che io uso per condurre al profondo lato nascosto dell’anima. La vera avventura che propongo è quella che il narratore e il lettore intraprendono insieme verso le tenebre dell’inconscio, verso la radice della natura umana.
Chi non capisce questo finirà per cogliere soltanto aspetti parziali e marginali dei miei libri: il paese, i rapporti uomo donna, il problema dell’identità e della sua ricerca, l’Africa e la brutalità dello sfruttamento coloniale, ecc., temi magari molto importanti dal punto di vista politico, o sociale, o antropologico, ma che nulla hanno a che vedere con il mio lavoro.
Il massimo che si può ottenere dalla vita, è una sua conoscenza che, per lo più, arriva troppo tardi. Per questo non si trovano, nelle mie opere, significati univoci o conclusioni definite: sono, soltanto, simboli materiali di illusioni fantastiche, la razionalità mutila che ci contraddistingue. Il lettore deve abbandonarsi alla loro apparente trascuratezza, alle reticenze, alle lunghe ellissi, al perplesso viavai di onde che, a poco a poco, lo sospingeranno alla tenebra fatale, indispensabile alla rinascita e al rinnovamento dello spirito. Deve smettere, pagina dopo pagina, di fare assegnamento sui valori acquisiti, affinché la sua ingannevole coerenza interiore perda progressivamente il senso che non ha e ciononostante le attribuiva, perché un altro ordine possa nascere da tale frattura, forse amara, ma inevitabile. Vorrei che i miei romanzi non figurassero nelle librerie accanto agli altri, ma fossero messi in disparte, chiusi in una scatola ermetica, per non contagiare la narrativa altrui e i lettori sprovveduti: perché si paga a caro prezzo cercare una menzogna e trovare una verità.
Che il lettore avanzi fra le mie pagine come in un sogno perché è in quel sogno, fra le sue luci e le sue ombre, che troverà, strada facendo, i significati del romanzo, con un’intensità proporzionata al suo desiderio di chiarezza e alle ombre della sua preistoria. E una volta terminato il viaggio e chiuso il libro entri in convalescenza. Esigo che il mio lettore abbia una voce in mezzo alle altre voci del romanzo, o poesia, o visione, o qualunque altro nome desideri dargli, perché possa prendere posto fra i demoni e gli angeli di questa terra. Un approccio diverso da quanto scrivo si limita a essere una lettura, non un’iniziazione all’eremo dove il visitatore vedrà la propria carne consumata dalla solitudine e dall’allegria. La cosa non è complicata se il lettore prenderà la mia opera come quella malattia di cui dicevo poc’anzi: si accorgerà di ritornare da se stesso carico di detriti.
Alcuni, quasi tutti i malintesi riguardo a ciò che scrivo, derivano dal fatto che il lettore lo affronta come gli si insegna ad affrontare qualunque narrativa. E la sorpresa sta proprio nel non trovarvi una narrativa nel senso comune del termine, ma soltanto ampi cerchi concentrici che a poco a poco si restringono dandogli l’impressione di soffocarlo. Ma lo soffocano solo per farlo respirare meglio. Abbandonate i vostri abiti di creature civilizzate, piene di interdetti, e concedetevi di ascoltare la voce del corpo. Osservate come le figure che popolano quanto narro non vengono descritte e non hanno quasi rilievo: è perché si tratta di voi stessi.
Ho detto tante volte che il libro ideale sarebbe quello le cui pagine fossero specchi che riflettessero me e il lettore, finché nessuno dei due sapesse più chi è chi. Cerco di fare in modo che ognuno sia entrambi e che ritorniamo da tali specchi come chi ritorna dalla caverna di ciò che era. È l’unica salvezza che conosco e, se anche ne conoscessi un’altra, è l’unica che mi interessa. Era ora di chiarire quello che penso sull’arte di scrivere un romanzo, io che in genere rispondo alle domande dei giornalisti con divertita leggerezza, trovandole superflue: non appena si conoscono le risposte, tutte le domande perdono di importanza. E, per favore, sospendete il giudizio: nel momento stesso in cui uno capisce, il giudizio cessa, e rimaniamo noi, meravigliati, dinanzi alla luminosa facilità di tutto. Perché i miei romanzi sono molto più facili di quanto non sembri: l’esperienza dell’antropofagia mediante la fame protratta, e la lotta contro le avventure incalcolabili, ma dal senso pratico, che sono i romanzi in generale. Il problema è che mancano dell’essenziale: l’intensa dignità di una creatura intera.
Faulkner, del quale non mi piace più quello che mi piaceva un tempo, diceva di aver scoperto che scrivere è una gran bella cosa: fa sì che gli uomini camminino sulle zampe posteriori e proiettino un’ombra enorme. Vi prego di cercarla, di capire che vi appartiene e, oltre a capire che vi appartiene, capire che è ciò che può dare, nella migliore delle ipotesi, un senso alla vostra vita.
[Traduzione di Vittoria Martinetto]