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 2018  ottobre 13 Sabato calendario

Intervista ad Alessandro Preziosi

L’arte della parola, che ha appreso fin da piccolo nella famiglia di avvocati, e che è parte integrante della cultura partenopea, sempre piena di tribunali, cavilli, transazioni e filippiche, gli appartiene nel profondo e non solo perchè ha una laurea in Giurisprudenza. Una vera seconda pelle, compatta e aderente, esattamente come la prima, quella da bel ragazzo impunito con gli occhi blu, il fascino spudorato, e la certezza matematica di poter avere tutte le donne che vuole. Con un solo ostacolo, sempre saldo e ben presente nella testa: «L’amore non corrisposto - dice Alessandro Preziosi, 45 anni -, non è amore, ma soltanto una prigione. Quando si è rifiutati bisogna lasciare andare, le ossessioni nascono da questa incapacità di dare libertà all’altro. Come indica la visione cristiana, l’amore è un incontro di volontà che include, oltre alla passione, l’affetto e il rispetto».
Dal teatro impegnato alla commedia romantica, dalle fiction di denuncia alle partecipazioni negli show televisivi per grandi platee. Preziosi come riesce a conciliare tutto questo, e, soprattutto, lei dov’è?
«Ha presente uno shuttle? Una parte esplode, quella legata alle esperienze più blindate, teatrali, sociologiche, e l’altra naviga, gravita, e tutto questo si chiama leggerezza. I banchi di prova così diversi servono a imparare, amare, regalare al pubblico di una sala cinematografica quello che sono abituato a dare quando sono in palcoscenico».
Secondo lei qual è la differenza fondamentale tra cinema e teatro?
«Sono due mestieri imparagonabili, due discipline lontanissime. Il teatro è costruzione progressiva, inizio, sviluppo e fine, il tutto in un’ora e mezza di cui si è totalmente artefici. L’ho capito recitando contemporaneamente in una commedia romantica come Nessuno come noi (in sala dalla prossima settimana) e in uno spettacolo come Van Gogh - L’odore assordante del bianco. Per me il cinema è come fare la radio, devi essere sempre sul pezzo, sempre di buonumore, e anche accettare che la vita entri nel personaggio che stai interpretando».
In «Nessuno come noi» di De Biasi è un professore arrogante, sposato con una moglie di cui non è più innamorato, travolto dalla passione per la giovane insegnante Betty (Sarah Felberbaum). Insomma, per buona parte del film, uno sciupafemmine piuttosto antipatico. Un’immagine che un poco le appartiene. E che potrebbe comportare facili etichette. E’ preoccupato?
«No. La mia vita professionale è costituita di 365 giorni all’anno, se si va a vedere quello che ho fatto quest’anno c’è di tutto, un’alternanza quasi psichedelica, una grande diversificazione di ruoli. E’ un vezzo mediatico creare intorno a un attore una specie di gabbia, qualcosa che lo definisca in un certo modo. Ma io sono molto sereno, se mi sento “bello” vuol dire che sono in grande combustione con tutto quello che mi circonda, i luoghi, le persone. Non ho paura delle classificazioni. Quelli che mi vedono a teatro dicono sempre “però, non è solo bello, è pure bravo”».
E’ spesso al centro dell’interesse di paparazzi e cacciatori di gossip, pronti a dare notizie sulla sua ultima conquista. Quanto le dà fastidio?
«Ho un sano distacco dall’ingerenza a cottimo nella mia vita privata. Penso che chi fa certe cose possa avere l’usufrutto, ma non certo la nuda proprietà di quello che sono. Forse è perché vengo da una città come Napoli, dove vige il “lascia correre”. La grande attenzione alle mie cronologie sentimentali può anche avere un aspetto positivo, può metterti davanti a quello che fai, più che altro mi dispiace per la privacy delle persone coinvolte».
Quando ha deciso che questo sarebbe stato il suo mestiere?
«C’è un giorno e un momento preciso. Il 20 dicembre del 1999. Sono uscito di scena, durante la prima rappresentazione dell’Amleto dove facevo Laerte, la regia era di Antonio Calenda. Fui sorpreso nel sentirmi davvero diverso da quello che ero stato fino a due ore prima. Ho provato lo stupore di un bambino. Ci stavo talmente dentro, ho capito che, in quello stato, c’era un mondo di sentimenti da indagare».
C’è qualcosa della sua vita professionale di cui non è soddisfatto?
«Moltissime cose. E la causa principale è l’inerzia. Ho sempre desiderato qualcosa di più, ma ho sempre attribuito al sistema la colpa di non riuscire a ottenere l’obiettivo. E invece penso che la colpa principale sia mia. Non ho creduto fino in fondo in tutti i miei grandi sogni. Per esempio quello della musica, avrei voluto praticarla di più».
E poi?
«Un altro sogno, che però si sta finalmente realizzando. A metà ottobre comincerò, da regista, autore e produttore, un documentario intitolato La legge del terremoto. E’ un progetto che, celebrando l’anniversario dei cinquant’anni del sisma del Belice, riflette sul significato di quell’evento. E di altri simili. Incidenti che determinano una perdita da cui non si torna più indietro. Che va avvalorata, e sostenuta, con un’adeguata prevenzione, perché quando arriva un terremoto un’intera comunità è spacciata».