La Stampa, 13 ottobre 2018
La custode dell’occitano di Calabria: “Insegno una lingua che scompare”
«Siamo una minoranza tra le minoranze. Rischiamo di sparire». Silvana Pietramala, 61 anni, misura ogni parola. Come se sentisse il peso della sua missione: salvare una lingua che rischia l’estinzione. Da anni è la custode del guardiolo, la variante di occitano che si parla a Guardia Piemontese (Cosenza). La speranza di sopravvivenza passa dai banchi dell’istituto comprensivo «Gaetano Cistaro»: lei è l’ultima maestra a insegnare la lingua - guai a definirlo dialetto - dell’enclave occitana in Calabria. Un’isola linguistica creata nel XII secolo dai valdesi in fuga dalla Val Pellice, in Piemonte, dopo le persecuzioni religiose seguite alla scomunica per eresia.
Da allora la lingua è stata tramandata, per secoli, di padre in figlio. Ma ora rischia di sparire: sono rimasti 200-300 parlanti, per lo più anziani. L’atlante dell’Unesco delle lingue a rischio cataloga il guardiolo come «gravemente in pericolo»: «Viene parlato dai più vecchi, le generazioni successive lo capiscono ma non lo usano con i figli». Due gradini dopo c’è l’estinzione.
La fuga dei giovani
Lo spopolamento di Guardia (La Gàrdia, in occitano), poco più di 1900 anime, è la principale minaccia. «Dopo le scuole medie tutti i ragazzi lasciano il paese per frequentare le superiori. Molti, poi, si trasferiscono per l’università», spiega Leopoldo Di Pasqua, 64 anni, da trenta preside dell’istituto. Un’emorragia in continuo aumento. I matrimoni misti sono l’altro problema. «Mio marito non è di Guardia. Io ho sempre parlato occitano alle mie figlie: lo capiscono ma non lo parlano fluentemente. E come loro tanti altri giovani», dice Silvana. Per invertire questa tendenza la scuola elementare ha inserito il guardiolo tra le materie curricolari: un’ora a settimana che fa media in pagella. Fuori dall’orario scolastico ci sono poi laboratori di teatro, cinema e arte in lingua. Sulla parete di un’aula c’è un dipinto che rivisita Guernica in chiave guardiola: le pozze di sangue ricordano l’eccidio del 5 giugno 1561, quando la popolazione venne decimata dalla violenza dell’Inquisizione.
Gli alunni sono un centinaio, praticamente la metà degli abitanti che parlano ancora l’occitano. «Gli studenti e i familiari hanno mostrato subito grande interesse, anche quelli stranieri», dice la maestra, che lo scorso anno ha insegnato storia e geografia in occitano. Quando pronuncia alcune frasi in guardiolo, si resta spiazzati: le aspirate e le consonanti aspre tipiche della cadenza calabrese lasciano spazio a sonorità che evocano il francese e il dialetto piemontese. Un ossimoro linguistico che racchiude la storia dei valdesi «catapultati» in Calabria. Dall’occitano originale - parlato ancora da 3,3 milioni di persone nelle valli cuneesi, Francia del Sud e una manciata di città al Nord della Catalogna - il guardiolo si distingue per alcune parole, plasmate nei secoli dall’influenza del dialetto calabrese.
I valdesi del Sud
Dalla scuola, nella marina del paese, bisogna arrampicarsi per otto chilometri tra aspri tornanti a picco sul Tirreno per raggiungere il centro storico di Guardia. È qui lo scrigno che custodisce la cultura secolare dei «valdesi di Calabria» (ora, in realtà, sono cattolici). Gli anziani che ancora parlano l’occitano abitano negli stretti vicoli dove i cartelli sono bilingui. La Porta del sangue (pòrta del sang), che ricorda l’eccidio del 1561, segna l’ingresso del paese. Sotto l’arco Silvana Iacovo, 51 anni, cerca una tregua dal sole: «Certo che conosco l’occitano. Mio fratello vive negli Usa da 30 anni e lo usiamo quando ci sentiamo al telefono. I miei figli lo parlano ancora, ma sono quasi gli unici giovani qui in paese». Clara Primavera, 72 anni, è una delle anziane del luogo: «Sta scomparendo un patrimonio preziosissimo, la storia di un popolo unico».
Pochi metri più in là il centro culturale Gian Luigi Pascale conserva gli abiti tradizionali indossati dai primi piemontesi arrivati a Guardia. La flanella usata per resistere al freddo della Val Pellice fu presto sostituita da materiali più leggeri e adatti al clima calabrese. Nel 1991 è morta l’ultima donna che indossava l’abito tradizionale tutti i giorni, ora viene utilizzato solo nelle cerimonie di rievocazione. E lì il guardiolo torna protagonista.
Le accuse al ministero
L’occitano di Calabria, per qualche anno, resisterà. Fino a quando Silvana Pietramala andrà in pensione. «Mi manca poco, poi bisognerà trovare un’insegnante di ruolo che sappia anche la nostra lingua: è praticamente impossibile», spiega. «Non sono ottimista: nel giro di due generazioni la nostra lingua potrebbe non esistere più», dice amaro il preside.
Finora l’impegno dei due ha mantenuto a galla la lingua e il suo patrimonio culturale. Ma adesso, dicono, serve un impegno serio del ministero dell’Istruzione. «Con i nostri progetti abbiamo vinto numerosi premi in concorsi nazionali. Ma siamo trattati come una minoranza di serie B». In Calabria esistono infatti decine di comunità Arbreshe (una forma arcaica di albanese) e grecanico (una lingua proveniente dal greco antico), mentre l’occitano si parla solo a Guardia Piemontese. «Loro possono fare rete, noi invece siamo isolati», si sfoga Silvana. «È ora che lo Stato faccia uno sforzo serio. I finanziamenti che riceviamo coprono il 30% delle attività che facciamo per salvare il guardiolo, il resto sono soldi che mettiamo di tasca nostra. Ci sentiamo abbandonati dallo Stato», conclude il preside. L’oblio è dietro l’angolo.