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 2018  ottobre 13 Sabato calendario

La rivoluzione del principe Mohammed bin Salman finisce nella repressione

È un paradosso. Le riforme del principe Mohammed bin Salman vanno avanti, le donne guidano, alcune osano togliersi l’abaya, il lungo copri-vestito nero, ragazzi e ragazze per la prima volta possono incontrarsi fuori di casa, andare al cinema, la polizia religiosa è sparita dalle strade. E nello stesso tempo la repressione procede inesorabile «con migliaia di religiosi, intellettuali, attivisti che finiscono in galera, e decine di condanne a morte per terrorismo», come racconta una fonte diplomatica del Golfo. Ma il paradosso è apparente perché, nell’annunciare le sue riforme, il principe ha anche dichiarato guerra senza quartiere all’opposizione religiosa, cioè ai Fratelli musulmani, né più né meno come ha fatto il presidente Abdel Fatah Al-Sisi in Egitto.
Questa guerra ora è arrivata anche agli ambienti della Fratellanza alleati con il mondo liberal americano, come l’assassinio di Jamal Khashoggi ha mostrato in modo brutale. Gli investigatori turchi hanno rivelato ieri al Washington Post che sono in possesso di immagini e audio: «Si può sentire la sua voce, si può sentire come è stato interrogato, torturato e ucciso». Rimangono pochi dubbi, anche se gli Usa restano prudenti e il segretario al Tesoro Steve Mnuchin andrà alla prossima Future Investment Initiative, la «Davos del deserto», dove daranno forfait molti investitori occidentali e il direttore dell’Economist Zanny Minton. Ci sarà un clima molto diverso da un anno fa, quando Bin Salman al Forum economico di Riad del 24 ottobre, prometteva di «tornare all’islam moderato», all’Arabia Saudita di prima della svolta iper-conservatrice cominciata nel 1979.
Quel discorso però è anche l’inizio di una “guerra civile fra sunniti”, all’interno del Regno e fuori. Una settimana dopo Bin Salman imprigiona nelle stanze dorate dell’hotel Ritz Carlton trecento principi e uomini d’affari. «L’idea di costringerli a versare parte del loro patrimonio allo Stato – continua la fonte – è solo una copertura del senso vero dell’operazione: uno strike preventivo per stoppare un tentativo di golpe». 
Bin Salman vuole ereditare una monarchia diversa, assoluta, autocratica, tecnocratica ma non teocratica. Il blitz al Ritz Carlton permette di mettere da parte oppositori potenti, come l’ex principe ereditario Mohammed bin Nayef, ma anche il tycoon dei media Alwaleed bin Talal, il comandante della Guardia nazionale Mitaib bin Abdullah. Assieme al sequestro dei principi comincia una purga spaventosa. Almeno quattromila ulema finiscono in carcere, compresi i più importanti predicatori della Grande Moschea della Mecca e il pensatore di riferimento per la Fratellanza in Arabia Saudita, Salman al-Awda, che rischia la pena di morte.
Questa operazione non stupisce gli ambienti diplomatici del Golfo. Ma una certa sorpresa li coglie, lo scorso maggio, quando, accanto alla storica legge che permette alla donne di guidare, arriva l’arresto di una dozzina di attiviste che si erano battute proprio per questo, su tutte Loujain al-Hathloul, con accuse gravissime di “tradimento”. Le dissidenti, precisa la fonte, «sono tutte in qualche modo legate alla Fratellanza, anche se fanno parte dell’ala per così dire liberal». E qui si arriva al secondo fronte della lotta di Bin Salman, quello esterno. Le accuse di tradimento puntano ai legami con il Qatar e con la Turchia. Uno dei motivi delle purghe è l’accusa di «mancanza di lealtà» nei confronti del principe nella sua sfida dell’emirato, roccaforte della Fratellanza e del suo megafono più potente, la tv Al-Jazeera.
L’ossessione turca
La «guerra civile fra sunniti» si allarga all’estero, con l’appoggio incondizionato all’Egitto di Al-Sisi e i rapporti sempre più tesi con la Turchia. «Quando Ankara schiera una brigata, 5 mila uomini, nella sua base in Qatar, a Riad scatta l’allarme rosso – continua la fonte -: i Saud sono stati schiacciati due volte dai turchi, finché, dopo la caduta dell’Impero ottomano, hanno costruito il loro terzo Regno, l’attuale. La presenza di truppe a pochi chilometri dalle proprie frontiere è vista come una minaccia mortale». Il fatto che Khashoggi abbia deciso di trasferirsi a Istanbul non è ritenuto casuale. Khashoggi fa parte di quella “Fratellanza liberal”, già protagonista della Primavera araba in Egitto, che Riad teme più di tutto. 
Una saldatura fra la Turchia e questo mondo, con importanti agganci a Washington, è considerata esiziale. Forse al punto di spingere il principe Bin Salman a un azzardo che potrebbe «alienargli per sempre le simpatie in Occidente» e condannare al fallimento le sue riforme, private dell’appoggio e degli investimenti americani ed europei.