Corriere della Sera, 13 ottobre 2018
C’è anche la crisi della destra come l’abbiamo conosciuta
Il Brasile, terza democrazia del mondo dopo India e Stati Uniti, sta per cadere nelle mani di un estremista considerato fino a poco tempo fa una caricatura, invitata nei talk-show per far ridere. Due anni fa, del resto, negli Usa in pochi videro arrivare Trump, considerato un outsider dai capelli dal colore introvabile in natura, che mai avrebbe potuto sconfiggere l’establishment repubblicano e i suoi candidati.
Si parla spesso, giustamente, di crisi della sinistra. I suoi partiti tradizionali sono crollati al 20% e anche più giù in Germania, in Italia, nella stessa Spagna dove il Psoe è al potere pur avendo toccato il minimo storico. In Francia i socialisti sono messi se possibile peggio. Negli Stati Uniti i democratici non trovano un leader in grado di riunire l’anima riformista e quella radicale, e Trump accosta con grottesca efficacia la deriva sanderista al Venezuela di Maduro. In Brasile la stagione del partito dei Lavoratori è finita nel discredito e nella corruzione, con l’impeachment per Dilma e Lula in galera. Ma si parla meno, ingiustamente, della crisi del centrodestra, come lo abbiamo fin qui conosciuto.
Dov’è l’erede di Helmut Kohl, che ha governato la Germania per sedici anni, e di Angela Merkel, che la governa da tredici? Dove sono gli Jacques Chirac e i John Major?
A Parigi la destra repubblicana è stata esclusa dal ballottaggio per l’Eliseo per la prima volta da quando esiste l’elezione diretta, e ancora non si vede all’orizzonte un nuovo campione: troppo a destra il leader provvisorio Laurent Wauquiez, troppo al centro Valérie Pécresse, presidente della regione di Parigi, e Xavier Bertrand, che al secondo turno ha sottratto a Marine Le Pen la guida del Nord. A Londra i conservatori si sono avvitati nel suicidio politico di Cameron, nelle incertezze della May, nelle bizzarrie di Johnson, senza che i laburisti sull’orlo della scissione abbiano costruito un’alternativa credibile.
Dietro l’ondata populista non ci sono soltanto la crisi del mondo globale, la paura delle migrazioni, l’impoverimento del ceto medio, la distruzione del lavoro, l’avvento della rete che sdogana il linguaggio violento e il rapporto diretto tra il capo e il popolo. C’è anche, se non soprattutto, la crisi del fattore umano.
Questi fenomeni sono reali, e non se ne vede la fine. Ma da soli non sarebbero sufficienti, se non fosse saltata la selezione della classe dirigente, se il mondo fosse ancora in grado di formare e trovare leader capaci di contrastare la corrente, di dare un colpo alla ruota della storia, di interpretare i cittadini senza usarli, come fanno i populisti, né tradirli, come hanno fatto le élite.
In Italia la situazione è particolarmente grave. E non solo perché le aziende delocalizzano, i migranti sbarcano a migliaia, la rivoluzione tecnologica manda fuori mercato intere categorie, e il narcisismo del web avvelena la vita pubblica e mortifica i rapporti umani. In Italia il centro, che guardando ora a destra e ora a sinistra ha governato processi storici come la Ricostruzione, il boom, gli anni di piombo, la ripresa, non produce più un leader da vent’anni. Anzi, ogni volta che un capo politico tenta di occupare il centro, perde. Il Fini che elogiava Mussolini «statista del secolo» superava il 15%; è finito allo 0,4. Berlusconi, vero fondatore del populismo italiano, ora che si muove come un saggio nonno di famiglia e socio custode del Ppe non conta più molto. Monti non è riuscito a fondare un partito. Renzi ha tentato di spostare il Pd al centro, con il risultato di cedere i ceti popolari ai 5 Stelle senza conquistare i moderati.
Rimpiangere il passato è inevitabile ma inutile, mentre il sentimento del Paese mette sotto processo qualsiasi classe dirigente, sembra rifiutare ogni competenza, non si riconosce nelle tecnocrazie e nei corpi intermedi. Dove sono i sindacalisti che sfidavano l’estremismo delle fabbriche e della sinistra di piazza? Dove le autorità indipendenti che facevano pesare la loro autorevolezza su Palazzo Chigi e sulle istituzioni finanziarie internazionali? Dove i leader confindustriali che avevano dietro migliaia di operai e una cultura organizzativa e tecnica di livello europeo?
Dal fattore umano la ripartenza dell’Italia non può fare a meno. La selezione della classe dirigente non può essere affidata al criterio della mediocrità. Non servono curricula astratti, né ricette calate dall’alto. Serve la capacità di sentire il Paese, interpretare il sentimento popolare senza farsene condizionare, elaborare una proposta per le nuove generazioni guardando al domani e non al consenso immediato. Non sono processi che si improvvisano, o che si affidano alla pseudodemocrazia del clic. Ma già con le candidature alle prossime Europee il centrodestra, se ancora esiste, e il centrosinistra (idem) dovrebbero dare un segnale. L’alternativa è pagare all’ondata populista un prezzo altissimo.