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 2018  ottobre 12 Venerdì calendario

Stefano Sollima racconta il suo Soldado

C’era una volta in America. E c’è ancora. Un re che è un regista, figlio d’arte, che si è fato le ossa come cameraman realizzando, per la Cnn, Nbc, Cbs, reportage da zone di guerra prima di iniziare a lavorare da noi, vent’anni fa in tv, in serie come Un posto al sole e La squadra. E ora che Stefano Sollima siede davanti ai giornalisti per il suo primo film tutto americano, Soldado, non rinnega nulla di quel passato in parte comune con il padre Sergio regista del leggendario Sandokan: «Pensavo fosse un passo indietro. Con il senno di poi ho capito che la tv era il mezzo del futuro». Ecco allora le grandi serie italiane, Romanzo criminale e Gomorra, e film importanti come ACAB – All Cops Are Bastards e Suburra, mentre adesso, a cinquantadue anni, ha diretto due star hollywoodiane come Benicio del Toro e Josh Brolin in quello che è il secondo capitolo, non il sequel, di Sicario di Denis Villeneuve. Una specie di western di frontiera immerso nei traffici più di migranti che narco. Senza dimenticare il terrorismo islamico. 35 milioni di dollari di budget, quasi 80 incassati in tutto il mondo e apprezzamenti critici importanti per Soldado che esce in Italia, buona ultima, il 18 ottobre in più di 400 schermi.
Come è stata questa prima esperienza americana?
«Fantastica, ho avuto a disposizione un sacco di giocattoli tecnologici che hanno fatto felice il mio lato infantile. Però è un’avventura da prendere con le molle perché è facile perdere la tua specificità come regista».
E in Soldado qual è il Sollima touch?
«Sicuramente uno sguardo amorale nel racconto, una rappresentazione di un mondo reale e vero senza nessuna timidezza. Un cinema così diretto non lo producono nemmeno gli americani. Questa è un’esperienza cinematografica in cui tutto può succedere e tutto ti viene buttato in faccia. E dove non c’è un compasso morale a cui aggrapparsi». 
La produzione l’ha lasciata libero?
«Sì, il film che vedrete è il mio director’s cut. In questo senso l’unico limite che hai sei tu. Per esempio in sceneggiatura c’era una scena con un elicottero e io ho detto ai produttori: Sarebbe bello fossero due. E così è stato. Mentre li ho visti un po’ preoccupati alla prima proiezione al piano sequenza del supermercato con i terroristi islamici che si fanno esplodere. Sembrava pensassero: Ma che davero?».
Perché secondo lei non è il sequel di Sicario?
«Quel film mi aveva molto colpito. Ma a differenza del mio che continua a raccontare quel mondo è che qui manca del tutto lo sguardo morale, e consolatorio, del personaggio dell’agente interpretata da Emily Blunt. Lei era la legge e i due personaggi di Benicio del Toro e Josh Brolin erano i fuorilegge che perseguivano il bene praticando il male. Quest’ultimo aspetto è la cosa che più mi ha interessato».
In effetti è molto bella, ancora una volta, la sceneggiatura di Taylor Sheridan.
«È molto vicina al mio modo di narrare, con una struttura corale, senza guida morale, un racconto di antieroi. Una piccola finestra aperta sul mondo e sul concetto dell’idea di confine che non è solo geografico. Il confine è anche quello morale che i protagonisti sono chiamati a definire e con il quale si confrontano».
Il finale sembra aprire a un terzo film, lo dirigerà lei?
«Se lo rifacessi io sarebbe un sequel mentre la scelta interessante di questa trilogia è quella degli sguardi diversi dei registi. Un film su questo mondo, ad esempio di Jacques Audiard, lo vedrei subito, un altro mio no. E poi la mia avventura americana è stata come una vacanza. La mia casa è qui in Italia».
Com’è dirigere due attori del calibro di Benicio del Toro e Josh Brolin?
«Per me sono due mostri e ho fatto fatica a gestire il fan che è in me. Mi dicevo: Non ci credo che sto parlando con Del Toro e gli scrivo pure le cose che deve fare. Detto questo sono due grandissimi professionisti. Mai un capriccio. Anzi sono stati molto disponibili. Del Toro che è presente in tutte le scene di azione, poteva anche risparmiarsi un po’, e invece no e mi ha aiutato anche nei provini per cercare l’attrice giovane».
In questi giorni c’è un acceso dibattito sui film Netflix che non escono al cinema. Lei che ne pensa?
«Che il cinema va visto al cinema. Il problema non si pone se guardiamo agli Stati Uniti dove andare al cinema è un evento in sé per la tecnologia delle sale. Noi in Italia dobbiamo ancora migliorare perché magari capita di andare in una sala e la trovi sfondata più del salotto di casa tua...».