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 2018  ottobre 12 Venerdì calendario

I testi inediti di Mark Twain

Nel 1906, trent’anni dopo Le avventure di Tom Sawyer, Mark Twain raccolse in volume ventidue racconti sotto il titolo The $ 30.000 Bequest and other Stories (Il lascito di 30.000 dollari e altri racconti). Pare incredibile per un autore di questo livello, ma fino ad oggi ventuno testi su ventidue erano inediti in Italia, come peraltro decine e decine di titoli appartenenti a una produzione certamente disuguale e pletorica, ma meritevole comunque di una traduzione integrale. È quanto sta realizzando da qualche anno, l’editore Mattioli 1885, che ha mandato in libreria, in due volumetti separati (Del pericolo di rimanere a letto e Consigli alle bambine), la traduzione di questi racconti firmata da Livio Crescenzi. Insieme, i testi offrono un campionario delle maniere comiche di Twain, dalla satira di costume al paradosso esistenziale, dalla caricatura grottesca allo scimmiottamento di mode e convenzioni (secondo una tecnica straniante molto simile a quella adottata da Achille Campanile e, sul piano grafico, da Giuseppe Novello), dall’aforisma al finto reportage giornalistico.
Incontriamo così la dimostrazione statistica che il proprio letto è il posto più pericoloso del mondo e la proposta, per bilanciare l’effetto delle teorie darwiniane, di un monumento ad Adamo; la richiesta, da parte dello stesso Twain, di leggere in anticipo i “coccodrilli” redazionali che lo riguardano per poterne rettificare le imprecisioni; un perfido decalogo di comportamento infantile che sembra uscito dalla penna di Swift; la cronaca del proprio rapporto di amore-odio con la macchina da scrivere (pur convinto di «essere stato la prima persona al mondo a usarla per fare letteratura», Twain se ne sbarazzò perché era «piena di capricci e di difetti diabolici»); e diverse parodie degli “stili” contemporanei, dalla novità telefonica ai manuali di conversazione.
Il racconto più bello – e più lungo – è però quello che dava il titolo alla raccolta originale, e che conferma il talento di Twain per lo humour nero; lo stesso humour nero cinico e sadico portato all’eccellenza da maestri come Ambrose Bierce e Roald Dahl. Vi si narra di una coppia dallo stile di vita estremamente morigerato, e di un lontano parente («una sorta di vago e indefinito zio o cugino di secondo o terzo grado») in odore di ricchezza e misantropia: un giorno i due coniugi ricevono una lettera nella quale questa specie di Scrooge annuncia un lascito a loro favore di 30.000 dollari, da riscuotersi alla sua imminente dipartita; unica condizione, che essi non ne parlino con nessuno e non si informino delle sue condizioni. Da questo momento i due incominciano a procurarsi il giornale della contea del parente nella speranza di trovarne il necrologio, cosa che, per un banale disguido, non avverrà mai; ma soprattutto incominciano a non essere più gli stessi, perché l’idea del denaro li lavora carsicamente, li modella fino a diventare la loro unica idea. Non dubitando nemmeno per un attimo di essere sul punto di diventare ricchi, moglie e marito ragionano come già lo fossero, ipotizzando investimenti e ulteriori fortune che autorizzeranno fantasie sempre più deliranti; magnati, mecenati, padroni della borsa e del mondo, sceglieranno le più prestigiose dinastie con cui far sposare i propri figli. In questo sogno ad occhi aperti vivono per ben cinque anni, finché non si risolvono, infrangendo il patto, a informarsi sul destino del testatore, che – scopriranno – era morto in miseria senza lasciare un centesimo: inebetiti, ottusi, sopravviveranno a se stessi per altri due anni, chiusi ognuno nel proprio silenzio; «poi nello stesso giorno sopraggiunse la morte per entrambi». Racconto-apologo, variazione morale sull’antico tema del denaro come regalo del diavolo, divertimento sadico, il Lascito di Twain non sarebbe un capolavoro se non sposasse, al crescendo fantastico del sogno di ricchezza, uno stile ragionieristico, contrappuntato di (reali) calcoli e di ansie legate all’alea borsistica, di preoccupazioni filistee e ancora di calcoli, calcoli, calcoli (osservò Calvino che se in Balzac il denaro è la forza motrice della storia, in Twain è «gioco di specchi, vertigine del vuoto»). E se il computo dei guadagni lievita in euforia, quello di come spenderli è già generatore di ansia, perché (come in Maupassant e in Zola) per il parvenu non ci sono arredi o bottiglie di vino o vestiti abbastanza pregiati. Quanto al motivo dell’inganno da parte dello zio-cugino, Twain non ci dà spiegazione, memore della lezione per cui in un buon racconto qualcosa deve rimanere inesplicato. A fronte di questo testo, il successivo Racconto del californiano parrebbe l’opera di un altro scrittore. Rielaborazione di appunti risalenti a quasi mezzo secolo prima, quando l’autore girava per la California in cerca d’oro e d’argento, il racconto ci mette di fronte a un Twain insolitamente sentimentale e romantico, un Twain segreto che, viene da pensare, si è sempre nascosto per pudore, come capita a chi, diffidando del sentimentalismo, si vergogna dei sentimenti. Abituato alle sordide catapecchie dei minatori, il narratore rimane colpito da una casetta linda e graziosa; invitato a entrare dall’anziano proprietario, coglie in ogni particolare la mano di una donna, una donna che tuttavia è in viaggio e che è attesa per sabato sera. Siamo solo a giovedì, ma l’ospite accetta di rimanere per conoscere di persona un simile modello di bellezza e di virtù, come documentano i ritratti e le parole del marito. Nelle tre sere successive sopraggiungono altrettanti amici, allo scopo di preparare alla viaggiatrice una degna accoglienza (concertino compreso), finché, all’ultimo momento, il marito viene narcotizzato e messo a letto. La rappresentazione è finita, e verrà inscenata di nuovo l’anno successivo, come ogni anno da diciannove anni, alla data in cui la donna sarebbe dovuta tornare ma non tornò mai perché morta in viaggio. Abbiamo allora assistito a una pietosa messinscena, resa ulteriormente struggente dal fatto che, anno dopo anno, il numero degli amici si è ridotto, per cui è il festeggiamento stesso a patire e a scontare il lutto. Un racconto alla maniera di Cortàzar, dunque, con un gusto quasi medioevale per la ricorrenza epifanica, quella per intenderci che fa della novella di Nastagio degli Onesti uno dei vertici del Decameron.