Corriere della Sera, 12 ottobre 2018
La nuova medicina passa per la radiomica
Una persona «non addetta ai lavori», che guarda l’esito di una tomografia computerizzata (cioè una Tac) o di una risonanza magnetica (Rm), vedrà un specie di fotografia, più o meno dettagliata del corpo umano o di uno dei suoi organi, in diverse sezioni. Un radiologo è in grado, ovviamente, di interpretare queste immagini e di valutare la presenza di eventuali alterazioni sospette: ne descriverà sette o otto caratteristiche come la dimensione, i rapporti con le strutture vicine, la presenza di nuovi vasi sanguigni, per esempio, e potrà anche suggerire una diagnosi. Ma l’intelligenza artificiale può fare molto, molto di più: può arrivare ad analizzare migliaia di caratteristiche di una lesione che l’occhio del radiologo non vede e, attraverso algoritmi, può arrivare a una diagnosi e predire anche il suo destino.
Tutto questo si chiama radiomica: si basa sull’analisi dei big data (cioè di migliaia e migliaia di esami di imaging, raccolti via via nei database e confrontati fra loro) che poi sfrutta non solo per capire come evolverà la malattia, ma anche per suggerire le cure più adatte.
«La diagnostica per immagini – commenta Sergio Papa, direttore dell’Imaging diagnostico e della Chirurgia stereotassica al Centro Diagnostico Italiano di Milano – si avvia a diventare una diagnostica sempre più personalizzata e ad assumere un carattere predittivo. Faccio un esempio: due tumori di due pazienti diversi potrebbero apparire simili all’esame del medico che li vede attraverso una Tac o una risonanza magnetica, ma risultare sostanzialmente diversi a un’analisi radiomica, avere una prognosi diversa e richiedere terapie differenti».
Certo che la radiologia ne ha fatta di strada, a partire dalla scoperta dei raggi X da parte di Wilhelm Roentgen nel 1895, fino ad offrire, oggi, non soltanto la possibilità di arrivare a diagnosi ultra-sofisticate, grazie alle tecniche imaging che via via si sono rese disponibili, ma anche nuove opportunità terapeutiche.
Un esempio è quello delle «microbolle»: oggi vengono utilizzate come mezzo di contrasto nelle ecografie (l’ecografia rappresenta un’altra tecnica di imaging: sfrutta gli ultrasuoni, che vengono indirizzati verso una particolare area del corpo umano, dove vengono più o meno assorbiti a seconda della densità dei tessuti. Quelli che non lo sono, vengono riflessi e registrati e restituiscono l’immagine dell’area del corpo umano che si è analizzata).
«Le microbolle, utilizzate come mezzo di contrasto nelle ecografie – spiega Papa – sono particelle di azoto rivestite da un gel che vengono iniettate in circolo: hanno dimensioni poco superiori a quelle delle nanoparticelle (che misurano fino a un miliardesimo di metro). Sono preziose perché, dal momento che riflettono di più gli ultrasuoni, sono in grado di evidenziare meglio il circolo sanguigno all’interno di un organo». Sono utilizzate da anni, ma adesso potrebbero avere una nuova vita, nell’ottica della medicina personalizzata. «L’idea è quella di mettere all’interno della microbolla farmaci capaci di agire direttamente nella sede della lesione, sia essa un tumore o altro, senza effetti collaterali sulle cellule sane dell’organismo – precisa Papa —. Come far liberare il farmaco nel posto giusto? Con un fascio di ultrasuoni di potenza diversa, per esempio. O con il calore o attraverso un campo magnetico».
Il problema è capire qual è il farmaco giusto da veicolare. Già oggi qualche dato, soprattutto nel campo dell’oncologia, è disponibile, in attesa che la radiomica dia suggerimenti più precisi. «In futuro – conclude Papa – si potrebbe ipotizzare che già durante un esame diagnostico con l’ecografia a microbolle si possa somministrare quasi in tempo reale il farmaco giusto e anche di monitorare il suo effetto in tempo reale».