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 2018  ottobre 12 Venerdì calendario

Lavoro, il turnover funziona?

Una delle tante scommesse della manovra riguarda le pensioni, in particolare il fatto che mandare le persone in pensione prima favorisca l’occupazione dei giovani. Il vicepremier e ministro del Lavoro, Luigi Di Maio, è il più convinto. Al punto che ieri, all’indomani dell’incontro fra il governo e il manager delle principali aziende pubbliche o partecipate (Cassa depositi e prestiti, Eni, Enel, Poste, Fincantieri, eccetera), ha affermato che in alcuni casi le imprese assumeranno tre giovani per ogni lavoratore che andrà in pensione. In realtà, la questione è controversa e non ci sono precedenti che suffraghino questa tesi. Per farsi un’idea sarà bene partire da alcuni punti fermi.
I criteriIl governo è orientato a varare un nuovo canale di pensionamento accanto a quelli previsti dalle leggi attuali (pensione di vecchiaia e pensione anticipata). Si tratta di «quota 100»: i lavoratori che l’anno prossimo raggiungeranno 62 anni d’età e 38 anni di contributi potranno (si tratta di una scelta volontaria) accedere alla pensione. Stessa cosa per chi avrà 63, 64, 65 e 66 anni (sempre con 38 anni di contributi). Questo canale consentirà, nel 2019, in base alle stime del governo, a circa 380 mila lavoratori di raggiungere i requisiti per la pensione. Di questi, quasi 150 mila sono dipendenti pubblici. Ma gli stessi tecnici non si aspettano che tutti coloro che avranno «quota 100» lasceranno il lavoro: «Se va bene avremo un tiraggio del 60-70%», cioè andranno in pensione fra i 230 e i 260 mila lavoratori in più. Gli altri non lo faranno per tanti motivi: per non avere una pensione comunque più bassa (meno contributi); per non incorrere nella stretta sul cumulo con i redditi da lavoro (che sarà varata insieme con «quota 100»); perché svolgono un’attività gratificante, eccetera.
Quanti di quelli che andranno in pensione verranno sostituiti da giovani neoassunti? Nel pubblico impiego, in molti casi, il rapporto potrebbe essere di uno a uno, stando alle affermazioni del ministro della Pubblica amministrazione Giulia Bongiorno, che annuncia un turnover totale. Nelle aziende pubbliche e partecipate, al di là dell’ottimismo di Di Maio, c’è invece cautela. Per esempio, il piano industriale delle Poste prevede 18 mila uscite entro il 2020 e solo 7 mila assunzioni.
La prudenzaPrudenza anche nelle imprese private. In molti casi «quota 100» potrebbe essere sfruttata dai datori di lavoro per liberarsi, magari con opportuni incentivi, di personale con mansioni superate o come una sorta di ammortizzatore sociale per gestire gli esuberi. È evidente che in tutte queste situazioni non ci sarebbero posizioni lavorative da sostituire.
Diverso il caso delle aziende per le quali «quota 100», anziché essere un aiuto alla ristrutturazione imposta da situazioni di crisi, sarà un’occasione di riconversione e rilancio. Qui la staffetta generazionale potrà vedere l’uscita di lavoratori che per l’azienda costituiscono solamente un costo e l’ingresso di energie nuove che consentano di fare un salto di qualità e produttività. Lo ha spiegato, per esempio, il presidente di Federalimentare, Luigi Scordamaglia, in un’intervista alla Verità: «Al Nord ci sarà bisogno di inserire figure under 30. Fare uscire in anticipo figure produttive che necessitano di una formazione basica consentirà certamente un ricambio generazionale. Il dirigente o il caporeparto con 35 anni di esperienza non potrà certo essere sostituito con il giovane appena uscito dalle scuole superiori, ma l’operaio di linea sì».
Le differenzeInsomma, anche nelle aziende che vanno bene si può immaginare un rapporto alla pari o anche superiore (viste le basse retribuzioni d’ingresso) tra pensionamenti anticipati e assunzioni di giovani solo se si tratta di mansioni di base non sostituite o non sostituibili da macchine (dal facchino al cameriere, dall’autista all’operaio con abilità manuali, dal carpentiere al fattorino), mentre ciò non avverrà per quei lavoratori con qualifiche superate dai progressi tecnologici e per quelli, al contrario, con specializzazioni che richiedono esperienza.
Una ricerca dell’Inapp, l’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche, svolta dopo la riforma Fornero su un campione di 30 mila imprese private, giunse alla conclusione che nel 2013-14 solo il 2,3% delle imprese piccole aveva rinunciato ad assunzioni previste prima della riforma. Tra le grandi, il 15%.