Corriere della Sera, 8 ottobre 2018
Chi è Bolsonaro
Rio de Janeiro Sarà anche un prodotto delle fake news, dell’onda conservatrice che domina un po’ ovunque nel mondo, della ripulsa per la sinistra che governa male e in più incassa mazzette, ma il personaggio Jair Messiah Bolsonaro, il capitano dell’esercito a un passo dalla presidenza, ha un percorso davvero unico. E non solo per il Brasile. Soltanto un paio di anni fa sarebbe stato inconcepibile che un nostalgico della dittatura, carico di odio per i gay, pronto a mettere un fucile in ogni casa affinché il cittadino «perbene» possa difendersi dai banditi, riuscisse a prendere le redini del più grande Paese dell’America Latina, continente che tanto ha sofferto le conseguenze degli anni rimpianti dal capitão, come i suoi lo chiamano.
Solo che Bolsonaro, a modo suo, ha schiacciato i suoi avversari con i metodi della politica più innovativa e rivoluzionaria dei nostri tempi, e molto meno con gli appelli romantici ai bei tempi andati. La nuova politica fondata sugli algoritmi dei social network, poche ma fortissime parole d’ordine, un programma inesistente e nessuna classe dirigente o partito alle spalle. Tocco finale non apparire mai in tv e ai dibattiti. Una follia? Può darsi, a giudicare da quella metà del brasiliani che stamani si sono svegliati con un mal di testa fortissimo e una serie di legittime preoccupazioni. «Distruggerò il malaffare». È davvero questo l’uomo che riuscirà a frenare la corruzione e far finire l’impunità della violenza in Brasile?
L’uomo nuovo della politica brasiliana, coma ama presentarsi, non lo è per niente. Per molti suoi sostenitori è il Trump del Sudamerica. Occhi azzurrissimi, andatura sempre dritta da caserma, 63 anni, l’ex capitano dell’esercito fa politica da quando era ragazzo, è alla sua settima legislatura, ha già tre figli in politica (oltre a un fratello) e tutti quanti seguono le stesse idee. Fino a pochi anni fa era conosciuto soltanto a Rio de Janeiro, e persino nella sua città superava a fatica la barriera del folklore. Faceva parte di una corrente di estrema destra di un partito conservatore, una specie di gruppetto di amici che nelle domeniche di caldo infernale noleggiavano piccoli aerei pubblicitari e li facevano volare lungo le spiagge di Ipanema e Copacabana con un striscione in coda. La scritta era sempre la stessa: «Bandido bom é bandido morto», cioè il buon bandito è solo quello morto. Frase che diventò rapidamente un modo di dire, anche scherzoso, ma allo stesso tempo la sintesi più semplice di un meccanismo di consenso, in un Paese dove ogni anno muoiono 60 mila persone per la violenza, quasi tutti poveri e emarginati.
Non molti, ma fedelissimi i suoi elettori, i quali ogni quattro anni riuscivano regolarmente a mandarlo a Brasilia, alla Camera. Bolsonaro intanto saltava da un partito all’altro, ma ben più importante per lui era apparire in tutti i programmi tv ai quali era invitato per far salire l’audience, sapendo che qualche frase pesante sulle donne, i gay, le persone di colore e la droga sarebbe comunque venuta fuori. «Preferisco che mio figlio muoia piuttosto che diventare omosessuale», «Lei, signora, non si merita nemmeno di essere stuprata». Il suo più celebre intervento in aula fu la dichiarazione di voto per l’impeachment di Dilma Rousseff, nella quale arrivò ad esaltare un capitano dell’esercito, Carlos Alberto Ustra, riconosciuto come torturatore della ex presidente negli anni della resistenza alla dittatura. Di origini italiane sia per parte di padre che di madre (cognome Bonturi), aveva detto che in caso di sconfitta alle elezioni avrebbe lasciato il Brasile perché verrebbe perseguitato, per cercare rifugio nella terra dei suoi antenati.