L’Economia, 8 ottobre 2018
Ossessione pensione
Il governo greco vorrebbe scongiurare il quattordicesimo taglio alle pensioni inflitto ai propri cittadini dal 2010. Atene è uscita, faticosamente, dalla lunga e dolorosa crisi del debito. E per questo il premier Alexis Tsipras chiede a Bruxelles, anche in chiave elettorale, un occhio di riguardo. La Grecia ha un debito pubblico superiore al 180 per cento del Prodotto interno lordo (Pil). Lo spread, la differenza nei rendimenti dei propri titoli con quelli tedeschi, è intorno ai 360 punti. Speriamo di non superarlo. I titoli greci sono ora acquistabili dalla Bce, avendo recuperato con fatica l’investment grade. Quel grado di investimento che noi, se mai fossimo declassati nelle prossime settimane da Moody’s e Standard and Poor’s, ci avvicineremmo a perdere. L’abisso dei titoli spazzatura è vicino. La crescita greca è ora superiore al 2 per cento. Un livello sognato a lungo dagli ultimi nostri governi. Nemmeno l’acrobatica fantasia della Nota di aggiornamento del Def (Documento di economia e finanza) arriva a tanto.
Si potrebbe dire, con una battuta, che faremmo carte false pur di averlo un 2 per cento di crescita. Ma è appunto quello che ha fatto Atene prima del crollo, truccando veramente i conti. Non è tempo di scherzarci sopra. L’esempio greco va tenuto costantemente presente. Il paragone non è per niente improprio né tantomeno offensivo. Dunque, quando ragioniamo di pensioni non possiamo dimenticarci che la popolazione più debole e anziana – a differenza di chi ha rendite di capitali – è prigioniera dei confini nazionali. E, insieme ai risparmiatori, le due categorie ovviamente in parte si sovrappongono, è la più esposta in caso di crisi. Dunque, attenti alla sostenibilità nel tempo di ogni scelta, anche di quelle animate da buone intenzioni. La via per l’inferno, recita il proverbio, è lastricata da buone intenzioni.
Il puntoFatta questa premessa parliamo di quota 100 e delle promesse gialloverdi sul sistema previdenziale. Escludiamo la cosiddetta pensione di cittadinanza che potrebbe essere un’estensione, da precisare, del reddito di cittadinanza se attribuito su base familiare. La legge Fornero è stata brutale (innalzamento di sette anni dell’età pensionabile legale, quella reale era ed è molto più bassa) ma efficace. Ha consentito di superare la crisi finanziaria del 2011. Dovessimo trovarci in situazioni analoghe, non avremmo nemmeno questa soluzione. Le deroghe – per tenere conto dei cosiddetti esodati colpevolmente dimenticati al momento del varo frettoloso della riforma – sono state otto per un costo totale di 11 miliardi. Oggi, tra le ipotesi, vi è quella di consentire il pensionamento anticipato con 62 anni di età, anziché i 67 della Fornero, e 38 di contribuzione.
I dettagli sono ancora in discussione. La quota 100 varrebbe solo per chi ha 62 anni. Chi è più anziano non potrebbe cumulare l’età con un periodo contributivo più basso dei 38 anni. Una riforma «senza penalizzazione, senza limiti, senza tetto al reddito», ha detto con sicurezza e slancio imbonitorio il vice premier Matteo Salvini, il quale non esclude in futuro il via libera a chi ha 41 anni di contributi. La stima dell’Inps nell’ipotesi più onerosa, con quota 100 senza restrizioni di età e 41 anni di contributi, tocca i 15 miliardi il primo anno e i 20 miliardi nel punto più alto della curva futura. La manovra impegna al momento 7 miliardi. La misura allo studio dovrebbe permettere il pensionamento anticipato di circa 400 mila persone l’anno. E consentire l’assunzione di altrettanti giovani. Il ministro Paolo Savona si è spinto a prevedere due giovani assunti ogni nuovo pensionato.
L’ipotesi di una sostituzione «uno a uno» non è confermata – si legge in uno studio dell’Osservatorio sui conti pubblici dell’Università Cattolica diretto da Carlo Cottarelli – né dalla teoria né dalle evidenza empirica. Ma assumiamo che sia possibile. La perdita di contribuzioni, per la differenza dei livelli salariali, sarebbe comunque rilevante. La stima arriva a due miliardi. Una pensione media è intorno ai 26-27 mila euro l’anno. Il salario medio di un nuovo assunto, sotto i 35 anni, nel caso assai raro di un contratto a tempo indeterminato, è di circa 18 mila euro. Senza contare l’esonero contributivo che può arrivare al 50%, come deciso dal governo Gentiloni.
Uno dei massimi esperti del sistema previdenziale, Alberto Brambilla, ha suggerito una strada più ragionevole. Accollare in parte il costo delle nuove pensioni ai fondi di solidarietà delle varie categorie, come avviene già per bancari e assicuratori, non scendere sotto i 36 anni di contributi e non consentire più di due anni di versamenti figurativi. L’onere per lo Stato scenderebbe così a 2,8-3 miliardi l’anno. Le aziende potrebbero favorire esodi anticipati dirottando parte dello 0,30% di quota contributiva, che già pagano, e parte dell’ulteriore 0,30 che non versano dallo scorso anno. Nei giorni scorsi è stato diffuso da Prometeia uno studio sul costo futuro delle pensioni. Spiega come la spesa previdenziale – solo pensioni, non assistenza – sia raddoppiata in 40 anni. Nel 2017 era al 15,4% del Pil. Dopo la riforma Fornero rimane onerosa ma sostenibile. Per quanto ancora, però? E qui le previsioni della Ragioneria generale dello Stato appaiono largamente più ottimistiche di altre. Secondo la Ragioneria salirebbe poco, al 16% nel 2040. Per l’Ue arriverebbe al 18,4%. Per il Fondo monetario sfonderebbe addirittura il 20%.
Come mai una simile differenza? La Ragioneria lo ha spiegato in dettaglio nel suo sito già lo scorso anno: dipende dalle diverse ipotesi di crescita, oltre che dalla produttività del lavoro, del tasso di partecipazione. La Ragioneria stima una crescita media dell’1,3% l’anno. Prometeia lo 0,9%. In Italia l’età effettiva di pensionamento è ancora, nonostante la Fornero, tra le più basse d’Europa. «Ma l’aspetto che viene sempre sottovalutato – precisa Lorenzo Forni, segretario generale di Prometeia – riguarda l’adeguatezza degli assegni. La sensazione è che si sovrastimi il valore delle pensioni future. Per chi lavora dal 1995, e dunque sono solo nel regime contributivo, il taglio è già misurabile nel 25%, dovuto al fatto che negli ultimi dieci anni abbiamo avuto una crescita media negativa. Chi ottiene un posto fisso ora, nell’ipotesi di un’occupazione continuativa, potrebbe subire una riduzione analoga se la crescita risultasse inferiore alle previsioni, come stimiamo noi di Prometeia». Senza crescita e senza aumenti di produttività non si avranno le pensioni sperate. È il caso di mettere ulteriormente a repentaglio il sistema previdenziale?