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 2018  ottobre 08 Lunedì calendario

Concerti per acciaio, vetro e carta. E il vento fa suonare le sculture

Al tempo della generazione dei lookdown, quella con lo sguardo fisso sullo smartphone, un tempo sempre più dominato dalle immagini immateriali della telematica, Mario Velocci (1949) rappresenta un’eccezione: con le sue opere estremamente concrete, vive, reali, ma anche con quel suo vivere e lavorare sempre ai margini, fuori dai giri delle grandi gallerie, dei grandi mercanti. Acciaio e ferro, sei metri di altezza e 15 di lunghezza, per un lavoro (Il suono del Liri, pronto per fine ottobre) destinato ancora una volta a un luogo del cuore dell’artista, lontano dalle «sirene» metropolitane (il piazzale davanti alla Conad di Anitrella, frazione del paese natale di Velocci, Monte San Giovanni Campano, in provincia di Frosinone): così si presenterà la prossima opera di Velocci, una scultura che ancora una volta vivrà grazie ai suoni della natura che la circonda.
Una storia, quella di Velocci, che lui sintetizza in tre sostantivi: spazio, linea, suono. Appare chiaro in Syrinx, la scultura da lui realizzata per il Padiglione Lazio, curato da Vittorio Sgarbi, della Biennale di Venezia 2011: un assemblaggio di finissimi tubini di vetro da cui si dipanavano aghi di ferro chiaro e lucido che si mettevano in contrasto (ma non in conflitto) con la pesantezza di una base in metallo. Proprio quella diversità di materiali vuole evocare «il rapporto tra forma reale e visibile e forma virtuale e invisibile, a cui il colore dà un suono» di cui scriveva Vasilij Kandinskij mentre il titolo arriva (più leggermente) da una composizione di Claude Debussy per flauto solo, del 1913.
Nato da una famiglia di contadini, Velocci viene iniziato dalla madre Elena all’arte e in particolare alla scultura, a cui si avvicinerà semplicemente giocando con la creta nei campi di lavoro (da qui la grande passione per la terra). Così le mani di un bimbo sarebbero diventate le mani segnate, amate, vitali di uno scultore «contadino dell’anima dell’arte». Una formazione che giustifica lo strettissimo legame di Velocci con la natura. Una istruzione che ha avuto come scenario privilegiato non i banchi di scuola, ma piuttosto i campi di grano e la terra che gli ha ispirato opere come: Campi arati, Becchi, Uccelli.
Velocci, da anni, porta avanti un discorso artistico legato allo spazio, alla linea e al suono: perciò molti suoi lavori sono opere sonore, vere e proprie «sinfonie di pagine scritte con note d’artista» perennemente sospese tra la fisicità dei materiali e le vibrazioni provocate dal vento (e dalla natura in genere) che le sculture fanno muovere, suonare, vivere (lo stesso succede con le sue «carte», che Velocci stesso strappa e ricrea nello spazio di uno «spessore»). Le stratificazioni, gli assemblage, da quelli minimali a quelli più consistenti, fanno sì che i lavori di Velocci non siano quasi mai realmente bidimensionali, ma che invece tendano ad allargarsi. Un lavoro di espansione, ma allo stesso tempo di alleggerimento, di sottrazione e di rarefazione, a cui Velocci sembra alludere, in particolare, in lavori come Erosioni (2002) e Cancellazioni (2003-2005).
L’ideale metamorfosi della materia e della forma e il mito della leggerezza, della musica, della luce sono però solo frammenti del lavoro di Velocci. Che da sempre si nutre di un rapporto intimo con la natura (specie quella dei luoghi dove è nato, dove è cresciuto, dove vive e crea) e con i suoi segni. Un mixage che si ritrova nelle opere di grande formato come in quelle di piccole dimensioni, sempre lavorate con materiali intrinsecamente dissimili come acciaio e cartone. Emblematici sono i lavori in cui unisce la carta, i pastelli e gli smalti, l’acciaio e lo zinco, come Griglia o Lamiera, del 1983, o l’affascinante Sonorità (2009), o ancora lo splendido ciclo delle Partiture in rosso (2011), dove «il colore rosso lacca strutturato in listelli allineati in scale crescenti o decrescenti, come quelle musicali, si dispiega in una calda intensità sonora che contrasta con l’elegante freddezza dell’acciaio». Per un artista capace di ri-creare il suono con la materia dei suoi stessi sogni.