La Stampa, 8 ottobre 2018
L’arte contemporanea è un business ma si compra solo alle aste e on line
Il fatturato dell’arte contemporanea è alle stelle: e artisti (siderali) come Basquiat, Rothko e Cattelan sono sempre più la rappresentazione plastica non dell’atto creativo, ma del bene rifugio. Sono l’investimento fine a sé stesso da spedire in un asettico caveau, ben lontano da quell’emozione che era il vero obiettivo dell’opera. Risultato? Il contemporaneo si vende bene nelle grandi aste – Sotheby’s e Christies’s ormai lo trattano di norma – e su piattaforme on line come Artsy e Artnet.
Chi manca all’appello di questa filiera in cui entrano sempre più spesso anche le banche? I soldatini della prima linea: i galleristi. Quei signori innamorati del proprio mestiere che fanno ricerca, cercano il grande artista in culla, se lo coltivano e convincono il cliente a comprarlo per il suo valore, non per la sua valutazione. Ora il loro mondo si è come capovolto, e comincia a mancare il fiato. Grazie a Internet la galleria come spazio fisico non esiste più, o meglio, la si mantiene più per nostalgia, come il vecchio telefono fisso al posto dello smartphone. E per vendere si è «costretti» a partecipare alle fiere, partecipazione onerosa, ma che spesso ripaga dello sforzo. I numeri – quelli dei galleristi che non girano il mondo a caccia d’affari – sono da débâcle: negli ultimi dieci anni le nuove aperture sono calate in modo drastico: le inaugurazioni del 2017 sono scese dell’87 per cento rispetto al 2007 e il rapporto aperture/chiusure è passato dal 5/1 del 2007 allo 0,9/1 del 2018.
«Penalizzato chi fa ricerca»
Torino, la città di Artissima, del Museo di Rivoli, della Fondazione Sandretto, considerata la capitale italiana del Contemporaneo, ha visto dimezzarsi negli ultimi tre anni il numero delle gallerie: «Alla Notte bianca dell’arte, l’apertura straordinaria che va in scena nei giorni di Artissima», dice Alberto Peola, gallerista storico che da 25 anni partecipa alla manifestazione dell’Oval, «sino al 2016 partecipavamo in 23: quest’anno siamo in sei, un dato che la dice lunga sulla fatica di restare attaccati con le unghie al mercato». Come spiega Peola, da quando l’arte contemporanea è diventata un investimento a sei zeri si è determinata una drastica selezione naturale delle gallerie: «È stata penalizzata la fascia media, che fa ricerca, che scopre i talenti, li segue, li fa crescere: noi amiamo il nostro mestiere, e non ci rassegniamo al fatto che in galleria ormai entrano sempre meno persone».
L’Italia va peggio
La tendenza è planetaria. Anche se il nostro Paese sta peggio degli altri, con un mercato fra i più penalizzati d’Europa dal momento che l’Iva sulle opere d’arte, al 22 per cento, è altissima, mentre per esempio il Portogallo (dove molte nostre gallerie, non a caso, emigrano) ha la tassazione al 5 per cento. In ogni caso, i numeri di The Art Market 2018 raccontano bene quanto le aste siano sempre più alternative alle gallerie: nel 2017 hanno totalizzato un fatturato di 28,5 miliardi di dollari con un più 27 per cento rispetto all’anno precedente. Giro d’affari astronomico, frutto in primo luogo delle vendite di opere-monstre che oltrepassano il milione di dollari. Non a caso il segmento dell’«investment in art» negli ultimi due anni è cresciuto addirittura del 148 per cento. Tornando al mercato italiano, anche nella capitale tira una brutta aria per le gallerie che fanno ricerca, come spiega Beatrice Bertini dell’Ex Elettrofonica, crocevia di nuovi talenti: «Stiamo mettendo in pericolo un attore necessario nel mondo dell’arte contemporanea. Sono infatti i privati come le gallerie e i collezionisti a finanziare, promuovere ed esporre i lavori di artisti italiani che altrimenti non verrebbero alla luce». Aggiunge: «Le istituzioni non sempre riescono a dare voce alle ricerche artistiche dei giovani. Il rapporto che un collezionista instaura con una galleria è prima di tutto un rapporto di fiducia e di consulenza. Quello che invece si sviluppa e muore all’interno della fiera è un rapporto fugace, poco approfondito, e non crea continuità». Beatrice Bertini chiede un’attenzione maggiore del ministero della Cultura per il ruolo delle gallerie di ricerca: «Va incentivato l’acquisto di beni derivanti da ricerche di giovani artisti».
Torino e Roma, dunque, si associano nel chiedere al governo azioni come quelle del Portogallo, che sponsorizza le proprie gallerie, pagando loro gli affitti degli stand nelle grandi fiere internazionali. Ma c’è una città, che in questo momento è la locomotiva d’Italia, in cui gli affari di chi commercia in opere d’arte non vanno così male: «Sarà perché a Milano si respira una sorta di New Deal», osserva Emanuele Norsa, direttore della Ncontemporary che sta dividendo lo spazio della galleria Mc2 insieme con il suo fondatore Claudio Composti. «Ero a Londra e ho deciso di tornare a Milano, dividiamo la galleria come spazio fisico, ben sapendo che questo spazio è sempre meno importante perché le trattative, gli affari, seguono altri canali, tant’è che i visitatori negli ultimi dieci anni sono dimezzati». Comunque a Milano qualcosa si sta muovendo: «C’è fermento e voglia di aprire nuovi spazi, con succursali che guardano all’estero, e la nostra MiArt va sempre meglio». Ma siamo sempre lì. O si vende alle fiere o si chiude.