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 2018  ottobre 08 Lunedì calendario

Strade groviera, le buche raddoppiano ogni anno. E ora servono 40 miliardi

Per le strade a pezzi d’Italia il peggio deve ancora venire e non è solo perché ogni anno le asfaltature sui 650 mila chilometri di rete sono la metà di quello che sarebbe necessario solo per mantenere la situazione com’è. «È come non curare un dente cariato, alla fine bisogna estrarlo», esemplifica Michele Turrini, presidente di Siteb, la Società italiana bitume asfalto strade, che ha circa 300 associati e rappresenta l’intera filiera del settore. Allo stesso modo in una strada lasciata a se stessa il degrado accelera, perché i difetti aggrediscono i livelli più profondi e intervenire sullo strato superficiale non basta più. E, superata una certa soglia di danno, la spesa per il ripristino si moltiplica per cinque.


Gli investimenti necessari
Non esistono solo i problemi alle grandi infrastrutture, come evidenziato dalla tragedia del ponte Morandi, a Genova, e dei mancati lavori straordinari a opere che si avvicinano pericolosamente alla fine della propria vita utile. In Italia esiste un problema, altrettanto drammatico, che riguarda gli interventi più minuti, la cosiddetta manutenzione ordinaria. Ecco perché oggi, solo per il manto stradale e soltanto per rimettersi in pari, servirebbero investimenti per oltre 40 miliardi. Una cifra enorme che è il prodotto di quasi tre lustri di amnesia: il 2004 fu l’ultimo anno con investimenti sufficienti e la china, da allora, si è fatta sempre più ripida. Minando dalle fondamenta un patrimonio pubblico il cui valore è calcolato in 5 mila miliardi e il cui degrado è fonte di un numero enorme incidenti. Sono oltre 10 mila ogni anno, stima Ania, l’associazione delle imprese assicurative, quelli con feriti legati allo stato dell’asfalto. E che, chilometro dopo chilometro, drena silenziosamente denaro, sotto forma di maggiori consumi di carburante e di piccoli grandi danni ai veicoli.
I numeri del disastro
Per inquadrare il fenomeno e le sue funeste prospettive si può partire da un calcolo, che consideri l’estensione della rete, le sue caratteristiche e la durata media d’una strada appena asfaltata. O meglio, del suo strato di usura, quello più superficiale, spesso in media 4 centimetri. Per intervenire ogni sette anni, servirebbero poco più di 173 milioni di metri cubi di asfalto, pari a 42 milioni di tonnellate l’anno. Peccato che questo livello di produzione, secondo i dati Siteb, sia lontano da quello effettivo: quest’anno si dovrebbe arrivare a 24 milioni, appena di più del punto più basso della storia recente, il 2012. «Non è sufficiente attribuire il calo all’assenza di grandi opere. Anzi, qualcosa c’è stato, tra BreBeMi, tangenziale di Milano o Expo. A mancare, da anni, sono proprio le manutenzioni». 
Il dato, oltre a essere estremo, è sbilanciato: perché le autostrade in primis - «fuori categoria», perché sorrette dai pedaggi - e un gradino sotto Anas, garantiscono uno standard relativamente alto. Ergo le buche affliggono soprattutto il resto della rete. Le conseguenze sono per il comparto, che ha perso nel giro di otto anni il 36% degli addetti e il 40% delle aziende. E per le arterie del Paese: come fotografato da una relazione al parlamento Ue, che analizza l’impatto della scarsa manutenzione su economia e sicurezza nel continente (2014), l’Italia (-52%) è la nazione dell’Europa dei 26 che, dopo la Bulgaria (-65%), tra il 2008 e il 2011, ha diminuito di più la spesa in manutenzione. Un trend che non si è più invertito.
Scavi selvaggi
Eppure non basta il gap pur enorme tra fabbisogno e produzione per inquadrare le radici della peste che divora le strade, a partire dalle comunali e provinciali, che scontano la profonda crisi finanziaria degli enti pubblici. Di peggio c’è che il poco che si investe è spesso vanificato dalla disorganizzazione e dalla poca incisività dei gestori di strade. Anche una manciata di giorni dopo un’ottima asfaltatura, le ruspe sono in agguato. Nei principali centri urbani gli scavi sono decine ogni giorno e fra questi è preoccupante la quota di quelli urgenti, concessi a fronte di guasti quindi autorizzati in modo quasi automatico. E che, nei fatti, spesso sono un escamotage per perdere meno tempo con le scartoffie o per eludere il divieto di rompere per un certo periodo (di norma è 2 anni) una strada appena rifatta. 
A pesare è l’azione dei colossi padroni delle reti sotterranee di acqua, gas e telefonia, che scavano di continuo e relegano i ripristini a una quota risibile del budget, traendo vantaggio da ribassi d’asta selvaggi e non curandosi - e anzi, chiamandosi fuori - dai subappalti sregolati di chi ottiene i lavori. Una garanzia quasi assoluta che le sistemazioni siano di bassa qualità. E una dinamica che, come inquadrato in molte inchieste giudiziarie, può sfociare in frodi, con l’uso di sabbia o miscele «low cost». Per eseguire rappezzi, quando non per l’asfaltatura di tutta la strada.
Armi spuntate e burocrazia
Ripristini e lavori di bassa qualità, al pari e forse ancor più dell’usura, sono il primo stadio delle voragini che tappezzano le strade. Ma, anche quando le irregolarità sono scoperte, il deterrente è debole. Un ripristino che non riconsegna la strada com’era prima dell’intervento è punito dal Codice della strada con 841 euro, oltre all’obbligo di ripristino. Il rimpallo di responsabilità e l’effetto dei subappalti, che spesso porta fuori dai confini italiani, è tale che spesso nemmeno si riesca a capire chi sanzionare e a chi ordinare di sistemare il danno: le imprese spariscono, ma il buco resta. Non è tutto: la burocrazia ci mette del suo. 
«Il risparmio - osserva Turrini - non è solo sulle manutenzioni, ma anche nella formazione dei tecnici. Gli appalti molte volte sono fatti col copia incolla, poco chiari: se non dico come voglio che sia la strada, è facile che il lavoro sia malfatto. Senza contare l’effetto del Codice degli appalti: non ha cambiato granché se non creare un mare di contenziosi e di imbarazzi alle amministrazioni». C’è un anello della catena che è forse il più debole di tutti, ed è quello delle Province e Città metropolitane. La ragione è semplice: a limiti finanziari, simili a quelli dei Comuni, uniscono reti estese e complesse, con ponti e gallerie - 30 mila, in tutta Italia - che fanno salire moltissimo i costi di gestione. 
Le Province a pezzi
Secondo una ricognizione di Upi, l’Unione delle province italiane, oggi circa 5 mila chilometri dei 130 mila di provinciali è chiusa per frane o perché il manto stradale è impraticabile. Un danno che ha più facce, perché spesso queste strade sono l’unico modo per raggiungere determinate località. Quando non si arriva a chiudere, i tecnici si tutelano: «Su oltre metà della rete - spiegano da Upi - i limiti di velocità sono tra i 30 e i 50 all’ora. In molti casi gli enti non sono in grado di imporre nuovi limiti perché mancano le risorse perfino per acquistare la segnaletica». Questo disastro è però figlio di scelte ben precise: tutto è partito nel luglio del 2001 (decreto Bassanini del ‘98), quando il 65% dell’allora rete Anas, 29.522 chilometri, passò alle Regioni, che, salvo poche eccezioni, lo cedette alle Province. Dopo aver trasferito pure risorse e mezzi, 933 miliardi di lire per il funzionamento, più quasi 1200 miliardi per 2001 e 2002 per un piano straordinario, lo Stato ha mollato la presa, le Regioni si sono disinteressate e le Province hanno iniziato ad annaspare. 
La spesa per la manutenzione è crollata tra 2009 e 2011 (-43%), passando da 3 miliardi a 1,7, fino ad avere il colpo di grazia con la riforma Delrio e il taglio brutale ai trasferimenti. Da questo punto di vista i 1,6 miliardi in sei anni stanziati in extremis dal governo uscente sono una goccia nel mare.