E che anche alle donne spettava il palcoscenico dello sport. Cinquant’anni fa, il 12 ottobre 1968, Enriqueta Basilio accese i Giochi di Città del Messico.
E divenne la prima tedofora della storia. Ora ha 70 anni, è vedova, ha tre figli.
Magrissima, capelli corti, il rossetto, orecchini piccoli luccicanti, un filo di voce e un foulard stretto al collo.
Vive da sola in una casa a due piani con un piccolo giardino in un quartiere residenziale di Città del Messico. Pareti tappezzate di fotografie, le vetrine di medaglie e cimeli. In una scatola, avvolta in un panno, la fiaccola di quel giorno.
Enriqueta, lei è la pioniera delle Signore dei Cinque Anelli.
«Sì, fino ad allora la torcia era sempre stata una prerogativa maschile».
Perché scelsero lei?
«Non lo so. Correvo gli ostacoli, ero determinata. Venivo da Mexicali, Baja California, mio papà che era un sognatore, mi parlava spesso dei Giochi Olimpici. Nessuno mi raccomandò, quando iniziò a circolare l’idea di una donna, mi chiesero se me la sentissi. Ci stavo ancora pensando quando uscì il mio nome sui giornali, non potevo tirarmi indietro».
Erano tutti d’accordo?
«Ma no, per niente, anzi. Avevo 20 anni. Ero troppo giovane, troppo inesperta e poi venivo dal deserto, non ero nessuno, avrei fatto fare brutta figura al mio paese. Naturalmente quello non era un posto per le donne, meglio se stavo in cucina. Questo dicevano le polemiche».
E lei?
«Il mio allenatore mi preparò psicologicamente a reggere la pressione e la paura, inaugurare le Olimpiadi davanti agli occhi del mondo era una grande responsabilità. E poi c’erano i tanti gradini da salire».
Quanti?
«92. Sembra facile, ma sono molti, quelli della scalinata vennero adattati al mio passo, in modo che io li potessi fare comodamente. Ma ero nervosa lo stesso».
Come andò?
«Come sempre quando il cuore ti balla in maniera pazza nel petto. Non ci capii niente, c’erano i tamburi che rullavano, degli scout e i fotografi invasero la pista, nessuno mi aveva preavvertito che sarebbe stato un militare a passarmi la fiaccola. Andai in confusione».
Un militare?
«Sì. Era in divisa. Una settimana prima c’era stato il massacro in piazza delle Tre Culture, gli studenti erano in sciopero, il governo temeva sorprese. Il villaggio olimpico era lontano, a noi non ci facevano uscire, le voci arrivarono dopo, non so cosa passasse nella testa di Diaz Ordaz, presidente del Messico.
A noi atleti dicevano di concentrarci sulle gare.
Eravamo lì per quello, no?».
Lei entrò nello stadio.
«Vestita di bianco. Pantaloncini e maglietta. Il bello è che me li prestò un addetto alle pulizie.
Io ero arrivata lì con la mia tuta, ma nessuno aveva pensato a portare la divisa con cui dovevo correre ad accendere la fiamma olimpica. Mi salvò quell’operaio, che non ho più rivisto, e che mi prestò anche una salopette grigio-verde con cui rientrare. Perché non è che potevo restare a gambe nude di sera. Sapevo che mia madre era venuta a vedermi, volevo fare bella figura».
Ci riuscì.
«Io sì, ma lei perse il momento.
Quando entrai nello stadio e passai davanti a dove era seduta, mamma chinò la testa per recitare il rosario. Non so se furono le sue preghiere o il mio allenamento, ma non inciampai e tutto andò bene».
Tranne che le sue gare.
«Eliminata al primo turno.
Negli ostacoli, nei 400 metri, e nella staffetta. Come se fossi esistita solo per durare il tragitto della fiaccola. O forse è quello che mi consumò. Fu la mia prima e ultima Olimpiade».
Cosa le è rimasto?
«Tre figli: Mario, Enriqueta, che ha giocato a volley, e Oliver, molto bravo nella pallanuoto.
In più un’esperienza politica, per un anno nel 2003 sono stata nel consiglio federale del Pri, il Partito Revolucionario Institucional. E l’orgoglio di avere acceso non solo il braciere, ma anche il cuore delle donne. I tempi erano maturi, non è per merito mio, ma io ho aperto anche quello spazio, a dimostrazione che le donne avevano il diritto di varcare, anche nel mondo del lavoro, molti cancelli. È quello che ripeterò alla tv giapponese che sta arrivando per intervistarmi. Cinquanta anni fa quei 92 scalini mi hanno tolto il fiato, ma ci hanno dato consapevolezza».