8 ottobre 2018
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Biografia di Caparezza
Caparezza (Michele Salvemini), nato a Molfetta (Bari) il 9 ottobre 1973 (45 anni). Cantautore. Rapper. «La musica che amo mi ricorda un piatto pugliese: riso, patate e cozze. Credo nella commistione di generi che non dovrebbero sposarsi, e invece stanno bene insieme: ska, rock, pop, jazz, rap» • «Sono figlio di un operaio e di una maestra. Il mio nonno paterno era falegname, quello materno era contadino. Io sono diventato cantante: non me ne vogliano». «Da piccolo prendevo i pupazzi di He-Man, li mettevo su un libro-piedistallo e facevo finta che cantassero. Scrivevo i pezzi, disegnavo le copertine. Mia madre sostiene che la prima parola che ho detto è stata “chiccolo: sarebbe “disco”. Ho due immagini alchemiche. Il colore arancione con cui mamma dipingeva non so che cosa e un vinile che gira e produce suoni. Mio padre aveva una piccola discoteca ambulante con cui arrotondava lo stipendio suonando ai matrimoni e alle feste di paese». «Da piccolo i miei giocattoli sono stati i fumetti e la musica. […] Le parole sono state l’altro mio primo amore: faticavo a imparare le poesie a memoria, non scorderò mai invece la felicità del primo scioglilingua» (a Paolo Russo). «Mia madre faceva l’insegnante di scuola elementare, e quando organizzava le recite dei bambini io ero sempre presente. Mio padre […] ogni tanto forniva a mia madre i dischi per le recite scolastiche, e quell’anno, credo fosse il ’78, era uscito The Robots dei Kraftwerk. Giravano questi quattro tedeschi vestiti da robot. Mi innamorai di quella canzone, e quando tornai a casa volli riascoltarla. Nella copertina del disco vidi qualcosa di oltre-mondo, dall’altro mondo, addirittura di un altro pianeta. Stessa cosa mi accadde con i Rockets: ho sempre amato ciò che è marziano. Anche quando mi sono innamorato del rap, vedendo i Run Dmc, questi tre con un microfono, con il dj al posto della band, mi sembrava qualcosa di marziano. Questo per dire che non mi è mai piaciuta la musica troppo intimista» (a Valerio Millefoglie). «Da piccolino mi iscrissi ad una scuola di musica per imparare a suonare il pianoforte. Dopo 3 mesi lasciai la scuola di musica col desiderio di abitare in una baita riscaldata da un camino alimentato dalla carcassa di un Bösendorfer gran coda. Decisi che la musica non faceva per me. Il giorno dopo iniziai a comporre i miei primi pezzi». «Inizi? "In un garage, con gli amici. Ero timido, quasi autistico. Alle elementari e alle medie, non parlavo con nessuno. Sempre con le cuffie sulle orecchie, isolato"» (Malcom Pagani). Diplomatosi ragioniere, «Caparezza, nei primi anni Novanta, si trasferì a Milano per studiare all’Accademia di comunicazione. Dice: “Dormivo in una struttura gestita da un prete, don Alvise, si chiamava ‘Casa del giovane lavoratore’. Venivo da Molfetta. Vinsi una borsa di studio. […] Arrivato a Milano, in stazione, beccai un treno di leghisti che inveivano contro i meridionali. Pensai ‘Buongiorno!’. […] Venni qui per evitare una brillante carriera da ragioniere. Ero ossessionato dalla creatività. Mi piaceva inventare”. […] Il tuo esordio da rapper? “All’inizio mi chiamavo Mix, poi Mikimix, poi Passolungo…”. Come Mikimix sei stato a Castrocaro e a Sanremo… “Ho avuto il privilegio di non avere successo. Se fossi andato bene sarebbe stato difficile scrollarmi di dosso quella storia”. Quale storia? “Cantavo quel che mi chiedevano. Per lo più scemenze, mentre intorno a me sentivo crescere il rap oltranzista degli Onda Rossa Posse. Io non sono mai stato combat, ma ero attratto da quei contenuti che venivano fuori dai centri sociali”. In quel periodo eri anche conduttore della trasmissione Segnali di fumo su Videomusic. Capelli rasati e parlata svelta. Nel 1997 cantavi E la notte se ne va: “Ed è dolce come panna l’eco della ninna quando vado a nanna”. “Ebbi un tracollo psicologico. Ero angosciato all’idea di avere successo con un pezzo che non mi sentivo addosso”. […] Come sei passato da Mikimix a Caparezza? “La svolta ci fu nell’estate del 1998. Ero animatore in un villaggio vacanze nelle Murge. Feci sentire i miei pezzi non pubblicati ad alcuni ragazzi. Si complimentarono. Uno di loro, punk, mi disse: ‘Dovresti riprovarci cambiando tutto, come fanno i francescani. Datti un’altra chance’. Decisi di tornare al nome con cui mi chiamavano in famiglia da bambino”. Caparezza, cioè “testa riccia”. Il primo successo: Fuori dal tunnel. “Lo mandavano ovunque. Non sono uscito di casa per non so quanto tempo. I miei amici mi dicevano: ‘Ma che combini?’”. È vero che per un po’ non hai eseguito Fuori dal tunnel in concerto? “Non volevo essere di moda”. Snob. Nel pezzo canti: “Immune al pattume / della tv di costume”. “Non volevo che la gente venisse a vedere venti canzoni dal vivo sperando che l’ultima fosse Fuori dal tunnel”. Il pubblico come ha reagito? “All’inizio non bene. Venivano meno persone e ho perso qualche acquirente. Però quelli che hanno continuato a frequentare i miei tour poi sono rimasti e sono cresciuti con i miei dischi. Quando ho sentito che quella canzone non era più necessaria per portare gente ai concerti l’ho rimessa in scaletta”» (Vittorio Zincone). «“Con il disco dopo, Habemus Capa, dissi la mia su tutto: Lega, politica, Auditel. Passai dalle 130 mila copie vendute di Verità supposte a 40 mila. E anche dal vivo ci fu qualche difficoltà”. […] Quella dell’essere incompreso è una costante. Vieni a ballare in Puglia, brano del 2008, ha avuto lo stesso destino da incompresa di Fuori dal tunnel. Parla di morti sul lavoro, la suonavano nelle feste di piazza. “Non mi pongo il problema di come venga recepita una canzone. Faccio il disco che vorrei sentire da ascoltatore. Però la reazione fu fastidiosa. Qualcuno non la capì proprio e la prese come un pezzo spensierato. Altri la capirono ma la portarono su un altro livello: i quotidiani locali mi davano del menagramo a casa nostra”» (Andrea Laffranchi). Dopo Le dimensioni del mio caos (2008), fu la volta degli album Il sogno eretico (2011) e Museica (2014), con cui il cantante riscosse un crescente successo, anche grazie ai numerosi concerti, tenuti non più solo in Italia ma anche nel resto d’Europa e in America. «Il nuovo doloroso inizio ha una data: 27 giugno 2015. Il suo tour faceva tappa a Parabiago, nel milanese, e durante il soundcheck il musicista avvertiva un fastidioso fischio all’orecchio. “Dopo una settimana era ancora lì, e ho capito che non mi avrebbe più abbandonato”. Aveva contratto l’acufene, un disturbo uditivo da cui non si guarisce. Anni di volumi alle stelle non hanno aiutato. “È come un Larsen che ti trapana l’orecchio senza sosta. […] Adotto la tecnica della distrazione, come chi dorme accanto alla stazione”. Suonare in giro era diventato un calvario. […] Terminato l’ultimo live, Caparezza si è trincerato in se stesso per mesi. Senza suonare, senza comporre. “Poi Daniele Silvestri mi ha chiesto un featuring per La guerra del sale. Mi ha convinto dicendo solo: ‘Divertiamoci’”. Poco dopo iniziava a concepire Prisoner 709, un album scritto “quasi in ordine cronologico”. La prima canzone, Prosopagnosia, denuncia senza giri di parole il malessere che cova dentro. “Il termine indica il deficit che impedisce di riconoscere i volti delle altre persone. A me capita con il mio”. […] A soffiare sul fuoco dei suoi dilemmi fu la scoperta dell’esperimento del 1971 di Philip Zimbardo, professore della Stanford University. Lo psicologo ricreò un carcere all’interno dell’ateneo e lo popolò di studenti, divisi tra detenuti e guardie. L’immedesimazione dei ragazzi nella loro nuova condizione fu impressionante. Dopo poche ore i secondini erano già dei sadici aguzzini, mentre i carcerati erano annichiliti. Uno di loro, il numero 819, ebbe un crollo emotivo, stigmatizzato dai colleghi. Nell’album di Caparezza è diventato il prigioniero 709, dove lo “zero” sta a indicare la libertà di scelta. “7” e “9”, rispettivamente Michele oppure il suo alter ego sul palco [in quanto sette sono le lettere che compongono il nome Michele, nove invece quelle dello pseudonimo Caparezza – ndr]. “Forse anche io mi ritrovavo dentro a un ruolo, da cui non ero più capace di sganciarmi?”, si chiede. E mi chiede. Le 16 tracce danno corpo e coerenza a un moderno concept album, “ma preferisco album a tema”. […] “In Prisoner 709 si spiega che il disagio deriva dalla mancata accettazione di sé. L’acufene ha sballato i miei valori, ho capito che non c’è nulla che valga il tempo dato a chi ti vuole bene. Forse così troverò il modo di uscire dalla cella”» (Dario Falcini). A un anno dalla sua pubblicazione, Prisoner 709 si è rivelato il suo maggior successo, sorprendendo lo stesso autore. «Ha appena terminato un anno favoloso: doppio disco di platino con il disco Prisoner 709 e tour tutto esaurito a bordo di canzoni non proprio di facile beva, spesso complesse o ispide e comunque arricciate su testi visionari, acuti e pungenti quanto basta. E lo ha celebrato con l’uscita di Prisoner 709 Live, che contiene un dvd documentario, il disco originale e un cd con le canzoni di Prisoner dal vivo, il tutto in tre versioni diverse (una delle quali contiene anche un libro fotografico). “Ora però basta”. Scusi, Caparezza? “Per un po’ torno a essere 7, e non più 9”. Prego? “Sette come le lettere del mio nome, Michele. […] Nove sono le lettere di Caparezza. Tornerò quando avrò qualcosa di nuovo da dire”» (Paolo Giordano) • Due libri: nel 2008 Saghe mentali (Rizzoli), ristampato nel 2018, e nel 2011 Chi se ne frega della musica (Auditorium) • Un cameo per Checco Zalone nel film Che bella giornata di Gennaro Nunziante (2011), in cui interpreta se stesso mentre si esibisce nelle canzoni dei Ricchi e Poveri • Celibe e molto riservato in merito alla sua vita privata. «Non uso i social nei periodi in cui non ho niente di professionale da dire. Difatti la mia vita privata è davvero privata. […] Il privato è bello che rimanga tale: non c’è davvero bisogno di condividere tutto» (a Elisabetta Pasca) • «Quando ha avuto successo, il movimento rap in Italia si stava riprendendo dal collasso delle posse e dei centri sociali degli anni ’90. Lui non c’entrava nulla con quella generazione. Ed è lontano anche dalla nuova scena trap. “L’hip hop è un movimento culturale rapido e in continuo aggiornamento. Una volta c’erano i Public Enemy con la loro visione politica; io ascoltavo i Run Dmc, che erano all’opposto. Adesso siamo arrivati al disimpegno in stile “rich kids” di Instagram. Mi sento vecchio e distante dai contenuti, però resta il mondo che genera più cose nuove”» (Laffranchi). «Prende spunti da molte fonti, imita lo stile e campiona a man bassa tutto quel che capita a tiro della sua sensibilità onnivora. Ma, al dunque, non imita nessuno» (Alberto Dentice) • «Caparezza è di sinistra. Dichiara: “Non parteggerò mai per un partito che non sia dichiaratamente di sinistra. Alle ultime elezioni ho votato Potere al popolo”» (Zincone). «Preferisco il comunismo al cognomismo: oggi non sei di un partito ma renziano o grillino… Roba da Monty Python"» (a Fulvio Paloscia). «L’impegno di un artista resta prima di tutto creativo: la critica sociale è un valore aggiunto, che però da solo non fa né canzoni né quadri e romanzi» • «Caparezza è ateo? “No. Agnostico. Non so se Dio esiste, non so cosa ci sia dopo la morte. Ma trovo l’ateismo consolatorio. Più della fede. L’idea che esista un’altra dimensione, di essere osservato da qualcosa che non riesco a vedere, mi fa paura. Ho bisogno di tenere a bada i miei demoni”» (Aldo Cazzullo) • «So di non dover mai dare nulla per scontato. Ho avuto una fortuna nella mia carriera: vedere in faccia la sconfitta. Questo mi permette di stare sempre con i piedi per terra. […] Vivo nella mia bolla, non mi rapporto agli altri, e soprattutto non appartengo a nessuna scena, se non a me stesso». «La musica mi ha dato tanto, ma mi ha tolto anche tanto. Mi ha tolto l’udito. Ho fatto questo lavoro con anima e corpo e ci ho rimesso parti fisiche di me, ci ho rimesso in ansia, in aspettativa. Adesso mi sento libero da queste cose perché il fischio mi toglie tutta la concentrazione: c’è una parte della mia vita che non ho considerato abbastanza e che ora sta richiedendo attenzione». «La mia dimensione vera è proprio il concerto. Anzi, senza i live forse preferirei solo scriverle, le canzoni, e poi lasciarle cantare a un altro. Così eviterei anche gli inconvenienti della celebrità. […] Non faccio rap, o non solo. Non lo rinnego, ci sono nato dopo la folgorazione coi Run Dmc, ma faccio anche altro. Ormai sono un artista crossover e faccio un genere che mi somiglia, quindi sono diverso da tutti. Complesso anche, certo: in un mondo dove tutto si semplifica, dove in 140 caratteri di un tweet devi dire un messaggio, io amo la complessità».