Libero, 8 ottobre 2018
Mantenere un segreto crea ansia e malumore
Avere un segreto in comune con qualcuno è un’esperienza che indubbiamente unisce, che crea una complicità forte, che salvaguardia e rafforza i legami, ma non è eccitante, perché è un evento stressante, faticoso, che comporta un dispendio di energie e a volte genera ansia. Normalmente infatti, i segreti sono legati ad eventi spiacevoli od inconfessabili, a faccende irrisolte che si vorrebbero dimenticare, a progetti futuri che si vogliono custodire, ma dei quali si avverte l’esigenza di condividerli con la persona più fidata che si ha accanto, per dividere il peso di una verità o di una realtà che non può essere rivelata pubblicamente. In fondo, quando ci viene fatta una confidenza, è una cosa che ci piace ed è gratificante, perché significa che trasmettiamo fiducia e serietà, che da quella persona siamo tenuti in considerazione, perché ci fa sentire potenti, magicamente influenti, e crea l’illusione che esiste una relazione profonda o speciale tra noi e l’interlocutore. Quindi è sempre bene non tradire questo credito personale, ma promettere di custodire un segreto, e poi riuscirci, non è così semplice, non è una passeggiata, perché la riservatezza comporta sempre un disagio psicologico che affatica il cervello, poiché genera un’ansia da prestazione che può appesantire le giornate e addirittura peggiorare l’umore. Il problema principale di quando teniamo nascosto qualcosa è il fatto che la nostra mente continua a tornare spontaneamente sulla questione da non rivelare, sul segreto che custodiamo con cura, tentando di affogarlo nella memoria o accantonarlo nella coscienza, ma che riemerge improvviso in varie situazioni, incidendo negativamente sulla percezione della nostra autenticità, perché ci rammenta che in quei momenti o in quei confronti non stiamo mostrando veramente chi siamo e come siamo, e si genera l’erronea percezione interiore che mantenere un segreto equivalga a mentire, con un forte conflitto interno, condito da emozioni contrastanti ed opposte che elaborano sofferenza psicologica. Quando conserviamo un segreto infatti, è come se fossimo gravati da un peso, più o meno oppressivo a seconda dell’importanza della confidenza, ed è un peso non solo psicologico ma anche fisico, che rende alcuni compiti relazionali più faticosi, e che a volte può indurre la tentazione di parlarne, pur di liberarsene.
SGUARDI DIRETTI Nel momento in cui una persona si confida con noi, a prescindere da qualsiasi considerazione etica, ci avvisa sempre che sta per esporci una cosa riservata, premettendo a chi non possiamo dirla, chiarendo che si tratta di un segreto, ed affidandoci la rivelazione con uno sguardo diretto, fissandoci negli occhi con la sicurezza o la speranza che non ne faremo uso e consumo pubblico. Tenere la bocca cucita su un segreto ricevuto vuol dire essere nel campo del pragmatismo relazionale, e non rivelando le cose che potrebbero danneggiare il nostro confessore, farlo soffrire, deluderlo o tradire la sua fiducia, vuol dire rafforzare il legame con lui, e resistere alla tentazione di confidarsi o confidare quel segreto è un’abilità che, come tutte le competenze, richiede esperienza e un preciso allenamento, fatto di self-control (per resistere alla voglia di spifferare tutto), e della capacità di capire quando il segreto è in pericolo, oltre alla conoscenza dei trucchi per difenderlo, come per esempio cambiare discorso. Ma siamo sicuri che custodire un segreto sia un atto di maturità, ed un comportamento ammirevole’ Perché spesso invece è un modo per diluire la responsabilità, per non prendere decisioni, per non cambiare lo stato delle cose, anzi per mantenere lo status quo, pur di continuare a condividere con il nostro interlocutore una complicità insperata e bene accetta, una intimità spirituale e di intenti che non sarebbe stato possibile raggiungere altrimenti. Ovviamente c’è una bella differenza se il segreto riguarda noi personalmente, cioè se siamo stati noi a confidarlo, od è una confessione ricevuta, perché nel primo caso il nostro segreto merita assolutamente riservatezza, non va spifferato ad altri, né utilizzato per danneggiarci, mentre nella seconda situazione la consegna del silenzio vale sempre, ma, riguardando altri, non ci disperiamo, anzi minimizziamo, se scappa qualcosa detta per caso in un momento in cui siamo deconcentrati o distratti. Ma perché a volte non riusciamo a mantenere un segreto’ Quando invitiamo a farlo infatti, alcuni nostri interlocutori iniziano ad avere un desiderio ossessivo ed ansioso di condividerlo con qualcuno, come se fosse un peso insostenibile, un’arma parecchio complicata da gestire, ma più spesso lo si fa per attrarre la fiducia e la stima di un altra persona alla quale si rivela un fatto inedito, come fosse una merce di scambio, e se il segreto è una cattiva notizia, si attiva in noi anche il senso di responsabile sociale, che non può che aggravare la tensione mentale già presente. In entrambi i casi comunque, confidare qualcosa di riservato e resistere alla tentazione di confidarsi è un’arte, anche se spesso provoca un senso di colpa («forse dovrei dirlo»; «forse sto sbagliando a tacere») o di vergogna («se lo dicessi verrei giudicato male»), ma comunque molto dipende dai pregiudizi, dalle abitudini, dalle ambizioni, dai desideri, dagli affetti e dalla voglia impellente di comunicare, che possono in vari modi inficiare la copertura del segreto.
SENSO DI COLPA «Non dirlo a nessuno» è la classica frase che abbiamo rivolto decine di volte nella vita a qualcuno di cui ci fidavamo, spesso senza considerare che qualunque interlocutore ha a sua volta un confidente fidato, con il quale probabilmente condividerà le rivelazioni o le considerazioni che abbiamo fatto a lui. Anche perché molte persone si sentono in colpa nei confronti di una persona significativa della loro vita (un coniuge, un familiare o un amico stretto) a dover nascondere o non condividere certe cose, che potrebbero innescare lo sviluppo di un senso di sfiducia e un affaticamento emozionale. Naturalmente, più percepiamo importante il segreto, più grande sarà lo stress e il continuo lavoro mentale, un vero e proprio rimuginio che ci fa sempre tornare lì, a quell’informazione che diventa un pensiero ciclico impossibile da interrompere. Le persone più loquaci possono a volte involontariamente lasciare che un segreto venga fuori, ma questo non significa necessariamente che sia una buona idea affidare le proprie confidenze a qualcuno più tranquillo o riservato. Ma d’altronde tenere tutto dentro, e non confidare un segreto può essere altrettanto gravoso, può stressare e indurre a parlare con qualcuno per non esplodere psicologicamente, perché contenere una rivelazione è come trattenere il respiro, non è affatto facile, e molto dipende dal carattere della persona che la riceve. Sull’ultimo numero del Journal of Personality and Social Psychology, una ricerca dello psicologo Michael Stepian, intitolata The exsperience of secrecy ( l’esperienza della segretezza), avanza le tesi suddescritte, concludendo che il vero pericolo di mantenere un segreto è quello di far pensare agli altri ipotesi peggiori della realtà, come quando si nasconde l’esito di un esame medico per non dare preoccupazioni, o quando quella confessione ci avvolge in un alone di ambiguità che può generare giudizi sbrigativi e penalizzanti. Se davvero non si vuole spifferare un segreto, il consiglio è di mettersi nella parte di chi si è confidato con noi, e pensare a come ci sentiremmo al suo posto se accadesse a noi, e se capita di lasciarsi sfuggire qualcosa, beh, meglio essere onesti con chi ci ha confidato il suo segreto ed affidato la sua fiducia. Anche perché, da che mondo è mondo, tre persone possono mantenere un segreto solo se due di loro sono morte.