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 2018  ottobre 07 Domenica calendario

Joe Biden e il dramma del figlio

«Papà, ascolta. Guardami. Io starò bene, qualunque cosa accada. Però tu devi farmi una promessa. Che non importa cosa succeda, starai bene anche tu». Arriva quasi alla fine del volume lo scambio che dà il titolo al memoir di Joe Biden, Papà, fammi una promessa. Un anno di speranza, sofferenza e determinazione, uscito negli Stati Uniti l’anno scorso e pubblicato ora in Italia da NR edizioni, nella traduzione di Francesco Costa. Un libro sul dolore privato, e di come esso s’inserisca nella vita estremamente pubblica di un vicepresidente americano. Il racconto viscerale di una battaglia contro il male incurabile del figlio, dell’agonia e dell’alienazione di un padre che vede spegnersi il primogenito, suo braccio destro e sua speranza, senza poter (né voler) venire meno alle pressioni del ruolo istituzionale che ricopre, pressioni indifferenti al dolore.
Ma è anche, Papà, fammi una promessa, un libro assai politico, dove Biden non manca di sottolineare i propri successi, snocciola ideali come punti di programma, spazia dagli esteri agli interni proprio come farebbe un candidato. Ci sono i rapporti con Putin, la Crimea, l’America Centrale. Sul fronte nazionale, il salario minimo a 15 dollari l’ora, la parità di paga, la spesa per l’ammodernamento delle infrastrutture, l’apprendistato e l’istruzione universitaria gratuita. Tutto Biden unisce, parlando di senso del dovere e di cambiare il Paese (anche se per tutto il volume, finito nell’estate del 2017, non citerà mai Trump direttamente). E usa anche il proprio dolore, Biden, perché conosce, e lo confessa, il potere dell’effetto simpatia che segue il decesso di qualcuno tanto caro. Così, se il libro è un resoconto di ciò che lo portò a non candidarsi per il 2016, è evidente che l’ex vicepresidente scrive pensando al 2020.
È la scuola per cui il politico è personale, e viceversa. È quell’aspetto della sua personalità che i giornali americani hanno più volte definito «da barman», insieme lode e diminutio: l’empatico, il conversatore per natura che mette a proprio agio gli elettori. Protagonista della politica americana da quasi cinquant’anni, democratico d’antan con amici in entrambi gli schieramenti, Biden ha corso due volte per la nomination del proprio partito, fallendo in entrambi i casi. Ma quando il più giovane Obama cercava un partner per il ticket è apparso la scelta più saggia. L’apice di una carriera, la vicepresidenza, apertasi quarant’anni prima con un’altra tragedia: la morte, in un incidente d’auto, della prima moglie e della figlioletta, quando Joe era appena stato eletto senatore del Delaware. Beau, che allora aveva tre anni, si trovava sul sedile posteriore, insieme al fratellino Hunter. E ora, quarant’anni dopo, Joe stava perdendo pure Beau, il suo consigliere più fidato, astro nascente del partito, per due mandati procuratore generale dello Stato e pronto a candidarsi, da favorito, al seggio di governatore. Era un Biden migliore di me, scriverà Joe: un Biden 2.0, con il meglio del padre ma senza difetti e défaillance. Aveva 44 anni, e molti, nel suo futuro, vedevano già lo Studio Ovale.
E invece. Invece, nell’estate 2013, Beau scoprì di avere un cancro. E non uno qualsiasi, ma un glioblastoma multiforme, il più letale tra i tumori al cervello, lo stesso di cui era morto Ted Kennedy. Così aggressivo che quando i neurologi iniziarono a sospettare che di quello si trattasse e i Biden chiesero al medico di famiglia quale fosse il centro oncologico migliore, lui rispose: «Se è il Mostro, non importa dove andiamo». E però la vita pubblica deve continuare. Così Joe descrive le proprie responsabilità di braccio destro dell’uomo più potente al mondo. Al telefono con i servizi segreti da linee telefoniche protette in ospedale mentre cerca di capire che cosa stia accadendo al figlio. E in mezzo a tutto ciò i piani per la sua candidatura a presidente, che Biden valutava molto più seriamente di quanto allora trapelato, progettandone ogni passo con il figlio già in quell’estate del 2013. Fino a coinvolgere in seguito George Clooney per la raccolta fondi. «Tutti noi eravamo convinti – scrive Biden – che fossi io quello meglio equipaggiato per finire il lavoro che io e Barack avevamo iniziato».
Lui, e non Hillary, con la quale i rapporti, ricorda Biden, erano quasi sempre gelidi. Come quella mattina di febbraio del 2015, quando lei, allora Segretario di Stato, gli annunciò che si sarebbe candidata, insinuando che Obama parteggiava per lei. «Mi sentivo un po’ triste per Hillary», ricorda Biden un po’ paternalista. «Era determinata come sempre, sicura di essere all’altezza. Ma la prospettiva della candidatura non sembrava darle gioia. Mi sembrò spinta da motivazioni e forze non completamente sotto il suo controllo». Ma al vaglio, nel memoir, c’è anche il rapporto con Obama, non esente da incomprensioni sebbene i due fossero così affiatati che i media scrivevano di bromance, l’amicizia platonica fra maschi. Obama pronto a prestargli i soldi quando Biden confessò che avrebbe dovuto fare un mutuo per le cure del figlio ma anche Obama che lo pressava per una decisione sulla candidatura anche nei giorni immediatamente successivi alla morte di Beau, e Obama sempre più convinto che Joe non potesse sconfiggere Hillary, tanto da farsi ritrarre con lei mentre consigliava a lui di fare un bagno di realtà. E ora, mentre Hillary diventa una serie tv, tratta dal memoir elettorale di Amy Chozick, il momento di Biden potrebbe essere arrivato, anche se alle elezioni del 2020 avrà 77 anni compiuti, e certi fantasmi del passato, come il ruolo nella vicenda Anita Hill, dove la commissione di maschi bianchi da lui presieduta mise la vittima presunta sul banco degli imputati, e la legge contro il crimine che contribuì a incarcerazioni di massa, sembrano tornati a perseguitarlo.
Beau Biden morì il 30 maggio 2015. «19:51», annotò il padre nel diario. «Mio dio, il mio meraviglioso ragazzo». Un mese dopo, nel ritrovo di famiglia a Kiawah Island, Joe si sedette sulla spiaggia dov’era stato l’ultima volta con il figlio. E pianse.